3 novembre -
Gentile Direttore,
l’ultima opera di Ivan Cavicchi, ‘Il riformista che non c’è’ è, al contempo,
passione e
azione. Passione perché è
phatos, preoccupazione dell’animo per questa Sanità che pare aver perso la sua bussola tanto da rischiare la deriva; azione perché propone, scuote e sollecita la messa in campo di buone idee da contrapporsi al paradigma tecnocratico che ancora oggi – pur se continuamente sconfermato nelle parole, ma – ahimè , ben distinguibile nei fatti - caratterizza il pensiero di coloro che governano il Sistema Salute in questo periodo difficile per il nostro Paese.
Buone idee per buone azioni: da dove partire, quindi?
Tra le molteplici proposte dell’autore, mi ha colpito particolarmente il suo pensiero circa il ruolo dei professionisti della cura. In un passaggio della recente intervista su questa testata, afferma infatti l’importanza di ridefinire il lavoro nei contesti di cura ‘
ma non partendo dai compiti, dalle mansioni, dai profili, dagli atti, che per l'appunto sono definizioni burocratiche, ma dall'agente, cioè da colui che lavora e che è definito attraverso i contesti culturali, sociali, economici, scientifici, deontologici nei quali dovrà operare e che garantirà che tutto quello che lo ha definito, sarà in ogni atto che compirà. Nuove definizioni di professione sono possibili integrando in un reticolo i principali predicati del lavoro professionale. Una professione reale non è mai indipendente da contesti reali in cui opera e meno che mai dalle capacità cognitive dell'operatore. Una professione non è fatta solo da competenze. Essa dipende soprattutto da chi la esercita…l'agente per l'appunto e dove si esercita il contesto di lavoro’.
La riforma tanto auspicata da Cavicchi, a mio avviso, non può che partire da un sostanziale ripensamento culturale del ruolo delle professioni che operano all’interno dei contesti di cura.
Oggi, nell’epoca della complessità assistenziale e dell’intensità delle cure - che facciamo ancora molta fatica a definire dal punto di vista concettuale, più che operativo – si sta assistendo ad un dibattito molto vivace sulle competenze che i diversi professionisti devono mettere in campo per poter meglio assistere quella persona che chiamiamo ‘complessa’; dibattito che spesso, però, parte da logiche che riducono le questioni ad una mera ripartizione di atti, compiti e funzioni e a disquisizioni di carattere corporativistico e settoriale che rischiano, in ultima istanza, di allontanarci da quella visione olistica della cura a noi molto cara.
Quando Cavicchi parla di ‘ripartire dall’agente’, credo intenda molto altro.
Ripartire significa anzitutto ripensare alle relazioni che esistono tra gli agenti. Se, utilizzando la nota metafora, l’hub è rappresentato dal luogo di vita del paziente e lo spoke dai professionisti, è essenziale lavorare sulla costruzione di un filo - la relazione, appunto - che colleghi questi ultimi. Come faccio a guardare la complessità dell’altro a partire esclusivamente dal mio punto di vista? Nell’alveo delle professioni sanitarie esistono diverse discipline, 22 profili, diverse normative che regolamentano ruoli e funzioni, ordinamenti didattici specifici, piani di studi diversificati, competenze definite e in via di definizione, etc…. Ma siamo sicuri di conoscerci? Sappiamo davvero chi è l’altro che sta accanto al nostro assistito? Ho forti dubbi, in tal senso.
E allora non posso offendermi quando ritrovo, anche in alcuni contributi che giungono a questo giornale, affermazioni di colleghi o di altri professionisti che leggono le questioni che ci interessano a partire esclusivamente dal proprio piccolo orticello disciplinare. E’ inevitabile che sia così! Se non iniziamo davvero a trovarci tutti attorno ad un tavolo per conoscerci meglio reciprocamente, per discutere di ruoli, funzioni ma, soprattutto, di come insieme si possa contribuire a migliorare lo stato di salute delle persone che assistiamo, saremo sempre muti che parlano a sordi.
Oggi l’identità delle professioni sanitarie mi pare, altresì, che sia troppo spesso tenuta in piedi dalle norme che ne regolamentano l’esercizio, più che da un’interiorizzata consapevolezza di chi si ‘è’. Per riacquistare identità consapevole abbiamo la necessità di ‘svestirci’ dall’identità normativa attraverso un passaggio culturale fondamentale che vede nella relazione il suo principale strumento.
Il riformista che non c’è è il professionista che cura la relazione, caro Ivan. A partire dalla formazione universitaria di base, per la quale è urgente pensare ad una cultura diversa, che sia di conoscenza e cooperazione reciproca e non di divisione (perché come ben dici tu, ‘ciò che nasce diviso è difficile che possa essere unito’), fino alla revisione sostanziale dei modelli organizzativi e assistenziali, ultimo (e non primo!) passaggio di quel percorso di riforma culturale dell’identità dell’agente tanto auspicato.
Molti ancora sarebbero gli aspetti su cui discutere in risposta alle sollecitazioni che il libro di Cavicchi ci trasmette, e credo che molti altri colleghi contribuiranno ad alimentare un buon dibattito in merito, ma ora vorrei terminare questa breve riflessione affermando che, a mio avviso, il riformista esiste: è chiunque in questo momento sa di poter mettere anche una piccola parte delle proprie energie a favore di un progetto riformatore.
E allora troviamoci, Ivan: iniziamo da un’idea.
Paola Arcadi
Presidente Accademia Scienze Infermieristiche