Lettere al Direttore
Trasformare le colpe professionali in risarcimento non è probabilmente la strada giusta
di Giuseppe Remuzzi, Livio GarattiniGentile direttore,
Betsy Lehman, inviata di Boston Globe, è morta di una dose eccessiva di chemioterapia. Aveva un tumore al seno. La curavano i migliori medici, in un grande ospedale americano. Il caso ha fatto il giro del mondo. È vero, i medici sbagliano, come tutti gli altri, né più né meno, e non potrebbe essere diversamente dato che all'università gli si chiede di studiare, per sei anni di fila, ma nessuno gli chiede mai di avere doti speciali.
Ma quanto sbagliano i medici? Due studi fatti in Usa hanno fatto vedere che il 2-3% degli ammalati ricoverati in ospedale sono vittima di errori medici. In base al numero dei ricoveri (circa 30 milioni) si può stimare che negli Stati Uniti ogni anno muoiano tra 40.000 e 90.000 persone per errori. Ma questi dati non sono certamente precisi. E in Italia? Nessuno sa davvero quante siano le morti per errori medici. Ma per quanto si può dedurre da piccoli studi la frequenza di errori in Italia non dovrebbe essere lontana da quella americana. Un dato abbastanza sicuro è che muoiono più persone di errori medici che di incidenti aerei, ma l'aviazione ha fatto enormi sforzi per individuare gli errori e mettere in atto delle tecniche che rendano più difficile sbagliare. I sistemi sanitari, no. Cosa si può fare? Intanto limitarsi a curare chi è veramente malato, e per le malattie per cui c'è una forte evidenza scientifica che ci siano cure efficaci. Se ci si attenesse, tutti, a questo semplice principio il numero di errori in medicina si ridurrebbe drasticamente. Tutti gli atti medici, dall'anestesia alla chirurgia, hanno un rischio. Il punto è sempre e solo se il gioco vale la candela. Sottoporre a chirurgia delle coronarie un sessantenne con un'indicazione precisa (è il caso di Clinton) vale la pena, ma c'è il caso che si faccia chirurgia delle coronarie a una donna di 85 anni, che non ha disturbi, e che forse sarebbe vissuta benissimo per gli anni che le restavano da vivere. In medicina è certamente sbagliato strafare. Resta il fatto che sbagliare è umano. Ma quello degli errori non è “un problema solo dei medici”, e di chi dirige gli Ospedali e di chi governa la sanità, c'entrano persino gli ammalati che sempre più vorrebbero tutti l’ultimo ritrovato, l'ultimo esame, l'ultimo farmaco, l'immortalità (se fosse possibile).
Con questa premessa, la questione sollevata dal Dr. Cavicchi sulla responsabilità professionale e sulla commissione istituita dal Ministro Nordio per avviare una riforma è una delle questioni cardine alla base del rapporto medico-paziente e di una medicina che vorrebbe depenalizzare l’agire medico.
Per affrontare la questione Cavicchi ha scritto un pamphlet in cui con il suo stile arguto e critico analizza i diversi aspetti che stanno alla base del conflitto ancora irrisolto tra medici e cittadini (prima ancora che malati).
Nella sua analisi in gran parte condivisibile la prima cosa da evitare è la scorciatoia della depenalizzazione in assenza di un riequilibrio tra interessi e diritti, rimuovendo tutte le contraddizioni che contrappongono medici e cittadini.
Più tecnologie e esigenze di “efficientare” (che brutto modo di esprimersi!) i processi hanno ridotto il tempo che il medico può e deve dedicare all’ascolto del malato.
In questa deriva si sta inserendo un nuovo fattore, quello che Cavicchi chiama la “quarta rivoluzione industriale”, che, se da un lato rischia di declassare la professione medica trasformando il medico in una specie di “server”, dall’altro rischia l’invasione di campo delle polizze assicurative che arricchiranno sempre di più le assicurazioni che ambiranno poi a investire i loro profitti nella sanità privata per aumentare il giro d’affari.
Per superare questa conflittualità, è necessario condividere con i cittadini un nuovo “patto sociale” in cui dichiarare chiaramente la complessità in medicina come circostanza ineliminabile dell’agire medico. Questa complessità dovrebbe quindi essere “giuridicamente” riconosciuta, come dovrebbe essere esplicitato che curare la malattia è diverso dal curare il malato, trattandosi di due gradi di complessità fra loro lontani. Nemmeno le linee guida aiutano perché sono disegnate sulla malattia e non sul singolo malato.
Poi ci sono le azioni legali. Cosa fare?
1) Bisognerebbe curare solo chi è davvero malato e limitarsi alle cure per cui c'è, nella letteratura scientifica, evidenza di efficacia. Ogni procedura, in medicina, ha un rischio, ogni farmaco ha effetti negativi: va evitato tutto quello per cui c'è grande probabilità che i rischi superino i vantaggi.
2) La giustizia dovrebbe utilizzare criteri di causa e effetto. (È inutile dibattere nei tribunali di errori che non hanno avuto conseguenze per l'ammalato, meglio farlo negli ospedali, dove, purtroppo, di errori si parla poco. E lo si dovrebbe fare apertamente e senza ipocrisie: è uno dei modi per imparare). E l'eventuale errore va dimostrato con i criteri della scienza.
3) Bisognerebbe saper distinguere fra responsabilità del singolo e dell'organizzazione. Quasi mai un ammalato va male per “colpa” di quel medico o di quell'infermiere. Ma le azioni legali sono quasi sempre contro il tale o il tal altro.
Aumentare le occasioni di scontro non serve, al contrario va aperto un dibattito, senza pregiudizi, che coinvolga ammalati e medici, certo, ma anche chi governa la sanità, gli avvocati, i magistrati, il pubblico.
E poi è venuto il momento di dire chiaro e tondo che, un conto sono gli errori medici che vanno certamente perseguiti, un altro è il tentativo di ottenere risarcimenti per casi di ammalati curati benissimo che comunque sono andati male. Di certe malattie si muore ancora oggi, per quanto i medici si possano prodigare. Parenti (e avvocati) vogliono approfittarne? Lo facciano, ma devono sapere che i medici sono stanchi e d'ora in poi cercheranno di organizzarsi per difendere il loro operato, quando è stato impeccabile, s'intende.
Ma la strada non è quella della depenalizzazione dell’atto medico, come forse si vorrebbe fare con la Commissione d’Ippolito. Ha ragione Cavicchi, si dovrebbe prevenire (ma nessuno ha voglia di cambiare niente) il conflitto sociale, rendere il conflitto più legalmente sopportabile - in altre parole trasformare le colpe professionali in risarcimento - non è probabilmente la strada giusta.
Giuseppe Remuzzi
Livio Garattini