Lettere al Direttore
Riproduzione assistita. Legge 40/04: vent’anni contro la storia e contro il progresso
di Maurizio MoriIl 19 febbraio 2024 ricorre il ventesimo compleanno della Legge 40/04. In vista di tale anniversario Assuntina Morresi su Avvenire (4 gennaio 2024: “Legge 40, vent’anni controcorrente”) ha scritto un articolo per sostenere che quella Legge è “la dimostrazione concreta che il mutamento antropologico che stiamo attraversando non [è] inevitabile, che i cosiddetti nuovi diritti non sono una necessità ineludibile”, e che è esistita e esiste una “eccezione italiana” la cui originalità sta nell’affrontare i problemi di oggi senza “necessariamente guardare al passato”, ma, al contrario, essendo “in grado di attraversare la modernità, tracciando nuove strade”. Non solo la 40 è importante per regolare un aspetto fondamentale della vita sociale (la riproduzione assistita), ma offrirebbe anche uno schema generale di azione per affrontare le tante novità che la storia e la tecnica oggi ci presentano.
Morresi riconosce che la 40 è stata “azzoppata” dai vari interventi della Corte costituzionale, ma afferma che, ciononostante, ha “mantenuto la sostanza del suo impianto”, la cui forza sta nell’inserire le nuove tecniche riproduttive nel “modello antropologico” che prevede “la procreazione naturale e i legami parentali che ne derivano”. Per far questo ha rinunciato a essere “una legge cattolica” contro ogni tecnica riproduttiva e ha accettato di consentirne l’accesso alle sole coppie eterosessuali sposate o conviventi “in età fertile che non riescono ad avere i figli desiderati per vie naturali”. In Italia la fecondazione assistita non è “una scelta procreativa per tutti, ma una opportunità offerta dallo sviluppo tecnologico alle coppie infertili, per cercare di metterle nelle stesse condizioni di quelle fertili”.
Quest’aspetto di adesione al paradigma antropologico naturale – continua Morresi – emerge con chiarezza da “un particolare lessicale”: “nel testo si usano le espressioni «fecondazione omologa» ed «eterologa», intendendo con la prima la fecondazione con gameti appartenenti alla coppia che vuole avere figli e con la seconda quella che invece fa uso di gameti esterni. Il testo non contiene le parole «donazione» o «donatore»”, come invece avviene nelle normative europee. “La differenza – sottolinea Morresi – è sostanziale”, perché in Europa la fecondazione assistita è “un atto individuale di cessione di gameti: una persona, per diventare genitore, può scegliere il percorso biologico utilizzando i gameti del partner o di un terzo”. In Italia, invece, la fecondazione assistita non è un “diritto individuale” perché al centro di tutto resta la “relazione fra un uomo e una donna che insieme desiderano un figlio, e che si rivolgono alle tecniche solo quando non riescono ad averlo per vie naturali, seguendo quindi criteri di appropriatezza clinica [… in] piena coerenza con il paradigma della procreazione naturale, con il solo concepimento affidato al laboratorio”.
Morresi è ben consapevole che, ammettendo l’eterologa, la Costituzionale ha aperto “una breccia nel paradigma antropologico naturale, portando a una frammentazione della maternità”. Ma osserva che, “finché l’accesso alle tecniche resta alla coppia uomo-donna, seguendo criteri clinici, l’impianto complessivo della legge continua a reggere” e resta che l’accesso alle tecniche è consentito solo “al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana [… “documentate da atto medico” (art. 4)] qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere” tali cause (art. 1). Conclusione: non solo l’impianto della 40 continua a reggere, ma – auspica Morresi – potrà anche “essere irrobustito nel nuovo anno appena iniziato [2024] quando il Parlamento renderà l’utero in affitto un reato perseguibile anche se praticato all’estero”. Questo divieto è così parte di un più generale programma di rilancio del paradigma antropologico naturale e della “eccezione italiana”.
La puntuale esposizione di Morresi della prospettiva alla base della L. 40 è utile perché ci consente di individuare l’errore di fondo della 40, che sta proprio nel suo impianto. Questo per un verso affida il concepimento al laboratorio e per l’altro, contemporaneamente, lascia che tutto il resto rimanga come prima e sia regolato dal paradigma antropologico naturale. Pensare di poter far questo è una finzione o un’illusione, e ciò emerge da almeno due aspetti: in via generale perché il fatto stesso che si entri in laboratorio per il concepimento già di per sé comporta una mentalità nuova e molto diversa rispetto a quella del paradigma antropologico naturale. In quest’ultimo la sessualità è soffusa di magia, e il talamo nuziale è visto come una sorta di tempio in cui l’esercizio della sessualità è aperto alla “procreazione”, termine teologico usato per indicare l’atto umano con cui i coniugi operano a favore (pro-) della creazione di un’altra persona seguendo le vie fissate dalla natura. D’altro canto, invece, l’ingresso in un laboratorio riproduttivo comporta una desacralizzazione o una secolarizzazione della sessualità, che ora viene vista come una funzione analoga a altre: priva di proprie (recondite) finalità da rispettare in sé, e soggetta a scelte umane. Già l’affidare il concepimento al laboratorio è passo decisivo, perché la presenza stessa di un tale laboratorio indica quanto profonda sia la trasformazione degli atteggiamenti riproduttivi.
In via più specifica la finzione o illusione insita nell’impianto della 40 emerge ancor più direttamente non appena si consideri che nel laboratorio riproduttivo non si cerca affatto di dare una “terapia” come altre, cioè non ci si limita a aiutare il processo naturale in difficoltà che richiede di essere soccorso, continuando per il resto a considerare la “natura” (la normalità fisiologica) come norma da seguire. “Terapia” in questo senso è l’aerosol che rafforza la vis medicatrix naturae per tornare alla respirazione normale (per quanto possibile); e terapeutici sono anche gli occhiali che consentono a un ipovedente di riguadagnare la normalità della vista. Ma quando si entra in un qualsiasi laboratorio l’obiettivo non è tanto “far terapia” ma conoscere le leggi generali proprie dell’ambito studiato: conoscenza che può poi consentire la trasformazione e il controllo della natura stessa, e anche di far terapia. E quando si entra nel laboratorio riproduttivo cui è affidato il concepimento, è ben noto sin dall’inizio che tale risultato non è affatto frutto di una terapia ma della scissione della sessualità dalla riproduzione, perché si scompone o frammenta l’originaria unitarietà naturale del processo riproduttivo che in laboratorio viene esternalizzato dal corpo. In breve: ammettendo l’ingresso nel laboratorio riproduttivo si riconosce ipso facto che è (moralmente) buona la scissione di sessualità e riproduzione e quindi che ceteris paribus è altrettanto buono tutto quel che ne consegue. Ciò significa far deflagrare il “paradigma antropologico naturale” e con ciò si rivela l’interna incoerenza dell’impianto stesso della L. 40, che inevitabilmente implode.
Assodato questo, si può poi riconoscere che la cura dell’infertilità è stata la molla che ha sollecitato l’idea della fecondazione assistita e che quindi ciò mantenga (affettivamente) un ruolo speciale, ma non appena la riproduzione umana è entrata in laboratorio si è aperto un “mondo nuovo”. Oggi nulla è più come prima, perché se si affida il concepimento al laboratorio, si riconosce che è bene che la tecnica sostituisca parti della natura per allargare, scomporre o potenziare le capacità riproduttive. Non si può poi più dire che tutto il resto rimanga come prima, perché il laboratorio apre orizzonti nuovi che sollecitano esigenze nuove. Qualcosa di analogo è capitato nel campo dell’ottica: scoperte le lenti si son fatti gli occhiali (terapia per gli ipovedenti) ma anche il cannocchiale e il microscopio per potenziare la visione. Limitare l’accesso al laboratorio riproduttivo ai soli infertili è, mutatis mutandis, come pretendere di limitare l’uso delle lenti ai soli ipovedenti e vietare poi il cannocchiale o il microscopio.
Anche della ruota si può dire che è “terapeutica” per chi ha difficoltà a deambulare (facilita lo spostamento), ma rispetto alla mobilità “naturale” (coi muscoli) la ruota è un nuovo modo di allargare la mobilità, rendendo possibile un aumento di velocità. Come non ha senso limitare l’uso della ruota solo a chi ha difficoltà deambulatorie, così è incongruo limitare la velocità al “passo d’uomo”. Eppure, l’idea che la velocità “artificiale” non dovesse superare quella “naturale” era così diffusa che le prime automobili non dovevano eccedere la velocità dello sbandieratore che le precedeva; e la bicicletta moderna (inventata attorno al 1880) è stata criticata perché la maggiore velocità “artificiale” avrebbe prodotto la sindrome della “faccia da bicicletta”. Sorridiamo oggi di fronte a simili tesi, che ci appaiono anche un po’ superstiziose. Ma che diranno tra un secolo della L. 40, che limita l’accesso alle tecniche solo agli infertili?
Per quanto detto, l’impianto della 40, non regge, come non regge l’altra tesi di Morresi, che la 40 sia l’emblema di quell’“eccezione italiana” che avrebbe consentito al nostro paese di porsi all’avanguardia individuando una terza via tra il misoneismo che rifiuta ogni novità e il progressismo che le accetta tutte. In primis la presunta ’“eccezione italiana” non ha mai acquisito una propria reale consistenza, dal momento che il paradigma antropologico naturale non è mai riuscito a svettare: non ha mai mostrato né una palese superiorità morale, né una chiara capacità di dare risposte migliori e più efficaci alle esigenze riproduttive della gente. A ben vedere ha sempre giocato “in difesa”, pensando che per restare in auge bastasse criticare sulla scorta della morale di senso comune le soluzioni “eccessive” dell’individualismo. Nell’immediato questa strategia pare funzionare, ma nel tempo ha mostrato serie difficoltà.
In effetti quest’impostazione difensiva ha presto fatto emergere quanto l’impianto della L. 40 sia stato influenzato dal clima culturale del periodo in cui è nata, gli anni ’90 del secolo scorso, quando le tecniche riproduttive stavano muovendo i primi passi, la casistica era ristretta, e alcuni sollevavano anche dubbi sulla loro sicurezza. In quel tempo le difficoltà da superare erano tante e tali da portare Giovanni Berlinguer a sostenere che la riproduzione assistita fosse una pratica “di frontiera” e destinata a restare tale: qualcosa per pochi quantificabili nell’ordine di un centinaio di casi l’anno o poco più. Qualcosa di simile veniva detto anche del cellulare, che secondo Umberto Eco sarebbe servito solo a un numero ristretto di eccentrici: qualche ricco industriale, qualche top manager, e pochi altri. È da questo humus culturale che ha origine l’impianto della 40: allora, già l’ammettere l’uso delle tecniche per la cura dell’infertilità era un gran passo in avanti rispetto al divieto totale, e ulteriori richieste parevano non necessarie e ultronee.
Non tutti accettavano quell’impianto, tanto che fu subito chiesto un Referendum abrogativo della Legge, che però non ebbe successo: indice dell’incertezza sul punto. Oggi, però, le cose sono cambiate e quel clima culturale è evaporato. Il cellulare si è diffuso con rapidità davvero straordinaria, tanto che oggi ce l’hanno tutti e è diventato pressoché indispensabile nella vita quotidiana, facendo scomparire le cabine telefoniche che parevano essere parte del nostro habitat “naturale”. La riproduzione assistita non è più una pratica “di frontiera”: nel mondo oltre 10 milioni sono i nati grazie alle tecniche, numero che è una garanzia anche della loro sicurezza. In Occidente l’attesa di vita media è cresciuta molto ma le poche scelte riproduttive sono fatte avanti negli anni. Controllo delle nascite e nuove tecniche hanno sollecitato una nuova cultura della “secolarizzazione della nascita” in cui la scelta riproduttiva è diventata analoga a altre: non più qualcosa di dispensato dalla natura e da accogliere quando arriva, ma qualcosa da programmare in base a esigenze diverse e diversificate, che peraltro sono favorite dalle nuove opportunità rese possibili dalle tecniche. Sempre più persone congelano i propri gameti (“si sa mai che…”), o ricorrono a quelli “donati”; crescono le richieste di gravidanza in età avanzata come quelle di gravidanza per altri. Questo mix fa sì che il ricorso alla tecnica come cura per l’infertilità sia ormai solo una opzione tra altre possibili. Ci sono nuove e diverse modalità di nascita tra cui scegliere, per cui si può optare tra la modalità naturale o una delle varie modalità artificiali messe a disposizione dalle tecniche: un po’ come quando si deve decidere se muoversi in modo “naturale” (a piedi) o “artificiale” (bicicletta, monopattino, motorino, etc.).
Questa nuova cultura della “secolarizzazione della nascita” si è ormai diffusa anche in Italia. Nel 2022 il 7.2% di tutti i nati alla clinica Mangiagalli di Milano è frutto di assistenza tecnica, segno che anche da noi la pratica non è più “di frontiera” ma sta diventando “quotidiana” (routinaria). Da tempo le tecniche riproduttive sono entrate nei LEA (Livelli essenziali di assistenza, dispensati dal SSN), compresa la “eterologa” o donazione di gameti, per il cui “approvvigionamento” (soprattutto di quelli femminili, che richiedono più attenzione) ci si rivolge all’estero, cioè a paesi dove la “donazione” è consentita a prezzi prestabiliti. Poi capita di vedere che cliniche spagnole cercano donne italiane disposte all’aiuto, e ciò solleva domande su quale sia nel concreto la pratica: curiosità che sono tangenziali alla riflessione qui proposta e che non consideriamo.
Altri interventi riproduttivi confermano come ormai anche in Italia il clima socio-culturale sia molto diverso da quello degli anni in cui la 40 è stata pensata e approvata. In questo nuovo contesto, l’impianto è una sorta di pro-forma facilmente aggirabile, anche se Morresi insiste nel difenderlo e anzi ne auspica un suo rafforzamento che dovrebbe venire dall’approvazione del divieto universale di gravidanza per altri. C’è da sperare che questo divieto non sia mai approvato ma, ove lo fosse, il passo sarebbe un ulteriore disastro che confermerebbe una volta di più quanto l’impianto della L. 40 sia di ostacolo alla storia e al progresso. La L. 40 non è l’“eccezione italiana” di cui vantarsi: all’inizio ha creato tante sofferenze a chi è stato costretto a rinunciare ai propri progetti riproduttivi o ha dovuto recarsi all’estero per realizzarli, mentre ora è fonte di situazioni confuse e opache che attendono maggiore trasparenza, e un’eventuale approvazione del divieto universale creerebbe solo ulteriore caos. Per rimediare bisogna eliminare l’impianto della 40, che non offre affatto un valido schema generale di azione per affrontare le novità proposte dalla tecnica e dalla storia: pretendere di affidare al laboratorio riproduttivo solo il concepimento e di regolare tutto il resto in base al paradigma antropologico naturale è come affidare alle automobili la mobilità di una grande metropoli e poi regolarne il traffico in base a paradigmi pensati prima della scoperta della ruota; o affidare al cellulare o a internet le comunicazioni, e poi regolarle in base a quadri elaborati quando i messaggi erano affidati ai piccioni viaggiatori. Con l’arrivo delle tecniche il mondo della riproduzione umana è radicalmente cambiato e c’è bisogno di ripensare ex novo l’intera normativa, con un nuovo impianto e nuovi criteri. Che il 20° compleanno della L. 40 possa essere l’occasione per prendere sul serio il compito e cominciare il ripensamento.
Maurizio Mori
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica