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QS Edizioni - sabato 23 novembre 2024

Lavoro e Professioni

Salute mentale. Dimenticata dallo Stato, ma nuove malattie ed incombenze rischiano di far saltare il sistema

di B. Carpiniello, C. Mencacci, E. Zanalda (Sip)
immagine 22 dicembre - L’Italia ha costruito nei suoi primi quattro decenni un capillare sistema pubblico, fondato su una rete diffusa costituita da oltre 900 Dipartimenti di Salute Mentale. Questo sistema, ritenuto a livello internazionale un modello di riferimento, oggi corre un ‘doppio rischio’: da un lato quello del suo smantellamento progressivo, dall’altro quello di non riuscire a superare nemmeno le difficoltà quotidiane causate dall’aumento esponenziale di alcuni tipi di patologie mentali
Anni fa venne pubblicato su Lancet un importante articolo da parte di alcuni dei più eminenti personaggi della scena scientifica mondiale nel settore della salute mentale, il cui titolo era “No Health without Mental Health”, che divenne immediatamente uno slogan famoso e ripetutamente citato. Nelle parole, anche in quelle del mondo politico e di chi a livello nazionale o regionale ha il governo della sanità, sembra non esserci alcuno che non sia disposto a sottoscrivere che “non c’è salute senza salute mentale”. Nei fatti le cose sembrano andare diversamente.

Non sembra che nel nostro Paese emerga l’auspicata e auspicabile traduzione delle buone intenzioni in azioni concrete, al di là degli atti di indirizzo via via assunti negli ultimi anni.

L’Italia ha costruito nei suoi primi quattro decenni un capillare sistema pubblico, fondato su una rete diffusa costituita da oltre 900 Dipartimenti di Salute Mentale alla quale viene affidato complessivamente il compito della prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali e più in generale del disagio psichico. Questo sistema, giustamente ritenuto a livello internazionale un modello di riferimento, in quanto concreta realizzazione della “psichiatria di comunità”, corre un ‘doppio rischio’: da un lato quello del suo smantellamento progressivo all’interno del silenzioso processo di accorpamenti che sta avvenendo in Italia a seguito della creazione di Aziende sanitarie sempre più ampie.
 
Dall’altro quello di non riuscire a superare nemmeno le difficoltà quotidiane causate dall’aumento esponenziale di alcuni tipi di patologie mentali con un altissimo tasso di crescita, come i disturbi dell’umore e d’ansia (che oggi da soli rappresentano più un terzo dell’utenza), le “nuove patologie” (disturbi di personalità, “dipendenze comportamentali”, disturbi mentali dovuti ad uso di sostanze), le nuove incombenze (assistenza psichiatrica nelle carceri, cura dei pazienti autori di reato, tutela della salute mentale dei migranti ) e la persistenza di uno zoccolo duro di persone affette da disturbi mentali gravi di tipo psicotico, che da solo assorbe oltre il 60% delle risorse.

Di fronte a tutto ciò il sistema pubblico mostra crescenti crepe, amplificate dal progressivo impoverimento delle risorse di personale (in molte regioni italiane gli organici siano addirittura la metà di quelli fissati sulla base dell’ultimo Progetto Obiettivo Nazionale) e dalla generale scarsità di risorse finanziarie, che per la salute mentale si attestano mediamente su circa il 3.5% dell’intera spesa sanitaria, a fronte di cifre comprese fra il 10 e il 15% di altri grandi paesi europei (Francia, il Regno Unito, Germania).

La Conferenza Stato Regioni fissò anni fa nel 5% del Fondo Sanitario Nazionale la spesa da destinare al settore della Salute Mentale, ma solo tre aree (le Provincie autonome di Trento e Bolzano e l’Emilia Romagna) stanziano più o meno simili somme, a fronte di oltre la metà delle Regioni che si attestano ben al di sotto della media nazionale, già di per sè sottodimensionata.

In questa situazione, la prevenzione sembra un miraggio, mentre appare sempre più improbo lo sforzo di diversificazione ed ampliamento dei protocolli di trattamento innovativi e basati sulle evidenze, resi indispensabili da una sempre maggiore complessità dei casi da trattare, siano essi di tipo psicosociale (dagli interventi psicoeducativi a quelli di rimedio cognitivo, dalle terapie cognitivo comportamentali ai programmi supportati di reinserimento lavorativo per i pazienti affetti da patologie gravi) che di tipo farmacologico.

Persino per quanto riguarda questi ultimi sembra essere in atto la rincorsa al contenimento delle spese farmaceutiche, in una logica di tagli lineari, che la SIP rifiuta integralmente perché colpisce ed impoverisce un settore già inequivocabilmente sottofinanziato.

Tale logica sta portando a provvedimenti inaccettabili sul piano etico-deontologico e terapeutico, che sono oggetto di sempre più numerose segnalazioni da parte degli psichiatri del SSN. Si va dalla esclusione dai prontuari terapeutici di alcuni farmaci di nuova generazione nel settore degli antidepressivi e degli antipsicotici, all’imposizione ai dirigenti di Dipartimento e di struttura di tagli degli ordini relativi agli stessi farmaci, cioè quelli più innovativi e a lunga durata d’azione.

Tali provvedimenti hanno inevitabilmente comportato il ritorno ai trattamenti con farmaci ‘depot’, di prima generazione, o ai trattamenti con farmaci per via orale, nonostante il fatto che i primi siano inequivocabilmente gravati da rilevanti e maggiori problemi di tollerabilità ed accettabilità rispetto a quelli nuovi, e i secondi non garantiscano una adeguata aderenza terapeutica esponendo a maggior rischi di ricaduta, generando un inevitabile problema di aumento dei costi per ricoveri ospedalieri e inserimenti residenziali.

Ma ciò che è più grave è tutto ciò avvenga in sostanziale violazione del diritto dell’assistito a ricevere la miglior cura possibile e del medico a sceglierla. Tutto questo avviene in una situazione in cui in altri settori, come ad esempio l’oncologia, nessuno si sognerebbe di farlo. Se è vero che nel caso dei farmaci oncologici si tratta di allungare la sopravvivenza e/o migliorare la qualità della vita del paziente, è bene ricordare che questi sono gli stessi obiettivi anche in psichiatria, ricordando che non c’è forma di patologia che gravi di più dei disturbi mentali sulla qualità di vita dei pazienti e dei familiari, e che i disturbi psichiatrici maggiori sono gravati tuttora una aspettativa di vita dai 10 ai 15 anni più bassa rispetto alla popolazione generale.

Su queste basi noi contestiamo l’argomento da cui nasce la logica dei tagli, ovvero lo spesso asserito incremento esponenziale dei costi dei trattamenti psicofarmacologici. Se la spesa farmaceutica italiana ha un costante trend crescente questo non è certo imputabile al settore dei trattamenti psicofarmacologici.

Secondo il Rapporto Salute Mentale del Ministero 2015 della Salute in Italia si spendono questo settore circa 3,5 miliardi di euro all’anno, per oltre la metà assorbiti dalla spesa per l’assistenza residenziale, mentre la spesa farmaceutica è poco più di 600 milioni di euro (circa il 17% dunque della spesa per la salute mentale), considerando sia la spesa “convenzionata” che quella “diretta” o “per conto” delle Aziende Sanitarie.

Facendo riferimento alle due voci di spesa fondamentali, si spendono per gli antidepressivi poco meno di 381 milioni di euro (379 milioni di spesa convenzionata e 1,7 di spesa diretta o per conto) e per gli antipsicotici circa 220 milioni di euro (66 di spesa convenzionata, 155 di spesa diretta o per conto).

Secondo il rapporto Osmed 2017 dell’AIFA, relativo all’anno 2016, la categoria dei farmaci del Sistema Nervoso Centrale (che peraltro non è costituita dai soli farmaci psichiatrici ma anche da quelli neurologici), è solo al sesto posto nella graduatoria della spesa farmaceutica, con un costo di 30.2 euro pro capite, a fronte di una spesa di 70 euro per gli antineoplastici/immunomodulatori, 59 per antimicrobici, 24 per farmaci ematologici solo per citare alcuni esempi. Tali dati diventano ancor più significativi, tenendo conto che i disturbi mentali sono al top dei dati di prevalenza nella popolazione generale, sia a livello nazionale che internazionale.

Sempre secondo il citato documento dell’AIFA, nell’ambito della spesa “convenzionata” la spesa per i SSRI (i più usati fra gli antidepressivi) si è ridotta del 4.70% rispetto al 2015 e quella degli “altri antidepressivi” del 20.2%; se è vero che la spesa convenzionata per la classe “diazepine” (che include una buona parte degli antipsicotici di nuova generazione) ha visto per il 2016 un aumento del 4% circa e del 3% per gli “altri antipsicotici” è altrettanto vero che la spesa diretta delle strutture pubbliche per questi farmaci è calata rispettivamente del 18% e del 13% circa.

I trattamenti farmacologici sono riconosciuti come fondamentali per il trattamento di gran parte dei disturbi mentali, rappresentando per i disturbi maggiori la componente insostituibile di programmi di cura complessi e possibilmente personalizzati. Come Società Italiana di Psichiatria riteniamo nostro dovere e diritto ribadire che ogni taglio ulteriore alla già inadeguata spesa sanitaria nel settore per la salute mentale, compreso la riduzione che si continua ad operare della spesa farmaceutica, sia inaccettabile anche perché indicativa, ove mai ve ne fosse necessità, della discriminazione delle persone affette da disturbi mentali e della sostanziale e crescente marginalizzazione del sistema della salute mentale, eterna Cenerentola all’interno del panorama del sistema sanitario nazionale.
 
Bernardo Carpiniello
Presidente Nazionale Sip (Società italiana di psichiatria)

Claudio Mencacci
Past President Sip (Società italiana di psichiatria)

Enrico Zanalda
Segretario Nazionale Sip (Società italiana di psichiatria)
22 dicembre 2017
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