Ogni volta che si parla di spending review tornano le ipotesi di tagli alla sanità. Tagli presentati, naturalmente, non per ridurre i servizi, operazione socialmente “impresentabile” e alquanto “impopolare”, ma gli sprechi, in particolare quelli più facilmente aggredibili: beni e servizi. Sprechi che certamente esistono, come dimostrano i diversi prezzi pagati per le stesse categorie di beni, quando non addirittura per la stessa siringa. Che il problema vada affrontato è chiaro, anzi, i ritardi accumulati sono insostenibili, meno chiara è la strategia da seguire per realizzare l’obiettivo. Strategia che in questi anni è mancata nei troppi soggetti preposti, da quelli nazionali a quelli regionali.
La sanità non è un mercato normale, ma quello dei beni e servizi, a differenza delle prestazioni sanitarie, dovrebbe esserlo. Occorrerebbe riorganizzare la domanda, per avere un’adeguata risposta di mercato; dalle centrali d’acquisto, reali e non virtuali, alla qualità dei capitolati, coinvolgendo le diverse competenze, a partire da quelle cliniche, tutte cose che, peraltro, già avvengono in significative esperienze regionali.
Finalmente il nuovo Patto per la salute va in questa direzione.
Minore accordo, invece, riemerge su come finalizzare i risparmi. Se è vero che ormai tutti i bilanci regionali della sanità sono in sostanziale pareggio, e che la spesa sanitaria del Paese è significativamente contenuta, secondo i principali parametri europei e internazionali, occorre chiedersi da dove provengano le risorse che finanziano gli sprechi e, contemporaneamente, mantengono un sistema universalistico. Basterebbe mettere in logica e conseguenziale relazione, senza strabismi, l’efficienza nell’acquisizione di beni e servizi da un lato e il rispetto dei Livelli essenziali di assistenza dall’altro, per capire che quegli sprechi li pagano i cittadini, in termini di cattivi servizi.
L’elenco delle debolezze assistenziali del nostro Servizio sanitario nazionale, in particolare in alcune Regioni, da ospedali cadenti, a carenza dei servizi di continuità assistenziale - in particolare per la cronicità e la non autosufficienza - è lungo e va tenuto presente, se si vuol avere chiaro il quadro d’insieme.
In tale situazione, se colpire gli sprechi, obiettivo assoluto e prioritario, si trasforma, in ultima istanza, in una riduzione del Fondo sanitario nazionale e, conseguentemente, delle quote d’accesso al Fondo delle singole Regioni, avremo un doppio effetto: da un lato le Regioni che già hanno efficientato il loro sistema, avendo pochi margini di miglioramento, avranno un impatto diretto e negativo sui servizi assistenziali; dall’altro, le Regioni che non hanno ancora efficientato il loro sistema di approvvigionamento - se anche riuscissero a farlo nel breve periodo - non avranno più le risorse da riversare su servizi assistenziali fortemente carenti.
Ecco perché le preoccupazioni espresse dal Ministro Lorenzin e dai Presidenti delle Regioni, a sostegno della lotta agli sprechi, ma contro i rischi di una riduzione del Fondo, non possono essere archiviate come una scontata reazione di conservazione.
Giovanni Bissoni
Presidente Agenas