In Calabria è il momento della svolta per la pediatria
di Antonio Gurnari
07 GIU -
Gentile Direttore,
l’emergenza sanitaria determinata dall’epidemia da COVID-19 ha messo a nudo le problematiche del nostro sistema sanitario che, pur rimanendo uno dei migliori del mondo, mostra ormai dei limiti che, se non corretti in breve tempo, metteranno in ginocchio la sua sostenibilità nei prossimi anni.
Da diversi anni, il focus della discussione è stato incentrato sulla sostenibilità economica del sistema, considerando la riorganizzazione delle rete assistenziale territoriale come necessaria soprattutto per decongestionare gli ospedali, prendendo in carico in modo più efficiente le richieste dell’utenza, riducendo gli accessi al Pronto Soccorso e i ricoveri ospedalieri, che rappresentano le maggiori voci di costo del sistema. Quindi, un riassetto dell’assistenza sanitaria territoriale visto sempre in funzione della visione “ospedalo-centrica” che da decenni ha caratterizzato sempre più il nostro sistema sanitario.
L’esperienza dell’epidemia da coronavirus, con tutta la drammaticità che ha interessato soprattutto alcune regioni settentrionali con livelli organizzativi apparentemente più evoluti dei nostri, ha evidenziato in modo eclatante un altro elemento che, se possibile, è anche più importante della sostenibilità economica: la sicurezza delle cure ospedaliere.
Abbiamo visto come gli ospedali sovraffollati siano diventati i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, alimentando in modo esponenziale la catena di diffusione del virus.
Occorre, pertanto, un vero e proprio cambio di paradigma, se vogliamo salvaguardare la sostenibilità economica del SSN pubblico e universale che tutti ci invidiano e, nello stesso tempo, la sicurezza e la qualità delle cure ospedaliere. Cioè, passare dalla visione “ospedalo-centrica” a quella “territorio-centrica”, in cui il fulcro del sistema è rappresentato da una rete di cure territoriali riorganizzata e al passo con i tempi.
Non più medici di medicina generale e pediatri di famiglia che lavorano soli, confinati nei propri ambulatori, ma medici che lavorano in team, che supportati dalle altre figure sanitarie e amministrative sempre dislocate nel territorio, sono in grado di prendere in carico la maggior parte delle domande di salute della popolazione di una determinata area. In sostanza, non più cure territoriali come appendice di quello che non si può fare in ospedale, ma viceversa, ospedale come luogo di cure non effettuabili nel territorio.
Soluzione che nei paesi dove è stata attuata ormai da decenni, come ad esempio in Portogallo, ha contribuito in modo determinante a contenere l’espansione del Covid in quel paese, tanto che i media internazionali hanno parlato diffusamente della “eccezione portoghese”, non legata, quindi a fattori sconosciuti ma proprio al diverso e, sicuramente più efficace, modello organizzativo dell’assistenza sanitaria di base, le cosiddette Unità di Salute, formate da medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali che lavorano in team e che vengono valutati in base al raggiungimento degli obiettivi di salute nella popolazione che devono assistere secondo un approccio basato sulla “community-centered care” in cui è la comunità a costituire il fulcro degli interventi sia di tipo sanitario che sociale.
Del processo di riorganizzazione dell’assistenza di base in Italia si discute da qualche decennio, ma la Legge n. 189/2012 (Legge Balduzzi) che ha introdotto le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) e le Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP) è rimasta largamente incompiuto in quasi tutte le tutte le regioni, salvo qualche sperimentazione in qualche Azienda Sanitaria.
Ma questo rimane, comunque, il modello praticabile, senza avventurarsi in fantasiosi e rischiosi processi di modifica del ruolo giuridico del medico di base, paventati da alcune regioni e anche da qualche sindacato, che rischiano di essere un vero e proprio salto nel buio, pregiudicando in modo irrimediabile la tenuta del sistema sanitario nazionale che non potrebbe sopportare il costo di gestione di tutta la rete degli ambulatori territoriali attualmente garantiti per convenzione dai medici di medicina generale e dai pediatri di libera scelta.
Le risposte dell’Amministrazione Regionale per arginare l’emergenza sanitaria da Covid19 sono state finora sempre tempestive e fondamentali per arginarne la diffusione. Ora è il momento delle scelte successive che, se fatte nella giusta direzione, consentiranno di dotare la nostra regione di una rete di servizi sanitari moderni e attrattivi, capace di invertire la rotta che vede l’emigrazione sanitaria sempre in ascesa negli ultimi anni e spesso per prestazioni che potrebbero essere erogate nelle nostre strutture già da ora.
Il processo avviato due anni fa con l’AIR per la Medicina Generale è rimasto tuttora incompiuto perché si dovevano necessariamente fare, di pari passo, anche quelli della Pediatria di Libera scelta e degli Specialisti Ambulatoriali per consentire l’avvio anche in Calabria delle AFT e delle UCCP. Se c’è la volontà, esso potrà essere completato in breve tempo con un minimo investimento organizzativo, che in parte potrà essere coperto con i fondi previsti dalla legge finanziaria 2020 (legge 160/2019) per dotare gli ambulatori dei medici di base di attrezzature necessarie a migliorare la tipologia e la qualità delle prestazioni (elettrocardiografi, spirografi, pulsossimetri, dermatoscopi, ecc).
La FIMP CALABRIA (Federazione Italia Medici Pediatri ) è pronta a collaborare a questo processo ed a fornire il proprio modesto contributo, qualora richiesto.
Antonio Gurnari
Segretario Regionale FIMP Calabria
07 giugno 2020
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