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Cannabis terapeutica. Non generalizziamo

di Attilio Terrevoli

25 OTT - Gentile direttore,
con riferimento all’articolo sulla vicenda di Walter Di Benedetto è doveroso fare una netta e precisa distinzione fra l’uso terapeutico dei derivati della cannabis, già regolamentato, e la generica legalizzazione di queste sostanze. Premesso che alla persona ammalata cui è stata prescritta una terapia con un derivato della cannabis deve essere garantita la continuità della cura, l’uso terapeutico richiede prodotti di classe farmaceutica, che vanno assunti per indicazioni e a dosaggi su prescrizione medica.
 
Essi devono rispondere a precise caratteristiche, prima fra tutte la costanza entro limiti noti della concentrazione dei principi attivi, cosa impossibile da ottenere senza un rigorosissimo processo produttivo.  Si tratta di farmaci (e parlo solo di farmaci) che possono essere utili adiuvanti, che correntemente usiamo (in molti casi anche a carico del servizio sanitario) nella terapia sia del dolore che di una serie di altri sintomi e disturbi in alcune ben precise circostanze.

È vero che si sono verificati episodi di carenza di questi farmaci, cui si deve ovviare con l’appropriatezza della prescrizione e anche con l’aumento della produzione, che però come abbiamo visto non può essere sostituita dal fai da te o da filiere non rigorosamente controllate che portano a prodotti che, anche se venissero legalizzati, non avranno mai una valenza terapeutica.

Il contenuto in principi attivi di prodotti ottenuti al di fuori delle vie ufficiali e controllate infatti è ignoto o non documentato e comunque molto variabile e incostante, del tutto inadatto al processo terapeutico. Questa circostanza conduce facilmente all’abuso e alla dipendenza, esattamente come per qualsiasi farmaco o altro, quando usato senza criterio per lenire sofferenze fisiche o psichiche (si pensi all’alcool o al fumo di sigaretta).

I cannabinoidi non sono peraltro essenziali nè insostituibili: in particolare il loro potere analgesico è nettamente inferiore a molti altri farmaci (oppioidi e non) e inoltre non sono gli unici prodotti attivi sui recettori endocannabinoidi; infine non sono esenti da controindicazioni ed effetti collaterali, anche potenzialmente gravi e pericolosi, sui quali è inutile entrare in questa sede.

L’alternativa terapeutica ai farmaci cannabinoidi in caso di carenza può quindi essere solo la sostituzione con altri farmaci e/o tecniche terapeutiche personalizzate, che ogni algologo potrà indicare e prescrivere, e non il ricorso a surrogati fuori controllo.
Per questi motivi l’utilizzo terapeutico dei cannabinoidi non può essere invocato a motivo della richiesta di liberalizzazione di sostanze che con il farmaco hanno in comune solo il nome.

Non entro assolutamente nel merito della legalizzazione dell’uso ricreativo dei derivati della cannabis, sulla quale il dibattito è aperto, ma l’uso terapeutico non può essere usato a pretesto per una campagna che ha un oggetto, un razionale, fondamenti e contenuti del tutto diversi.
 
Questa commistione getta discredito da un lato sulla validità terapeutica e dall’altro sui principi stessi della richiesta di liberalizzazione: il farmaco è una cosa, il prodotto di cafe shop o di piazza è tutt’altro altro, sia nel contenuto che nell’uso.

Lasciamo che i medici usino queste sostanze con i dovuti criteri per una terapia seria e non confondiamo una pretesa autoprescrizione terapeutica (cosa sbagliata e da non fare) con la libera scelta di usare i derivati della cannabis per motivi diversi dalla cura.
 
Dott. Attilio Terrevoli
Direttore UOC Terapia del Dolore
AULSS 8 Berica - Vicenza 


25 ottobre 2019
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