I nuovi farmaci ed il “value-based pricing”
di Andrea Messori
16 LUG -
Gentile direttore,
si tratta di un’annosa questione che coinvolge il nostro sistema sanitario nazionale e la nostra Agenzia del Farmaco e che tuttora non ha trovato una soluzione. Nel 2014, sotto la Direzione di
Luca Pani, l’AIFA dette qualche apertura all’ipotesi del "value-based pricing" [
1], confermandola poi nel 2015 con ulteriori contributi specialistici [
2]. La questione è tornata di attualità nei mesi scorsi presso l’OMS a seguito della proposta italiana (in particolare, di
Luca Li Bassi e del Ministro
Giulia Grillo) secondo cui bisogna perseguire la trasparenza del prezzo dei farmaci ed anche dei costi di ricerca, sviluppo, produzione e marketing [
3].
Condivisibilissimo il commento di
Fabrizio Gianfrate [
4] il quale ha sottolineato che la trasparenza dei prezzi (ad es. in ambito europeo) è un obiettivo a portata di mano, mentre la trasparenza dei costi di produzione e di gestione è un obiettivo totalmente irrealistico (soprattutto se viene perseguita per ciascuno delle migliaia di farmaci prodotti da centinaia di industrie del farmaco dislocate in decine di nazioni diverse); anche perché questa trasparenza di tutti fattori i produttivi implica la trasparenza di tutte le linee di ricerca fallite, oltre ad un opinabile vincolo di profitto massimo del 10% [
5] (valido, non si capisce come, addirittura su base internazionale).
La sensazione è che, perseguendo la trasparenza sia dei costi che dei prezzi, tutto rimarrà come prima e quindi non si raggiungerà la trasparenza dei prezzi, che invece sarebbe un obiettivo raggiungibile.
Che relazione c’è tra trasparenza dei prezzi e "value-based pricing"? Sono due concetti collegati molto strettamente l’uno con l’altro. Infatti, dato che il "value-based pricing" rappresenta una regola esplicita (anzi trasparente), l’applicazione di questa regola per ciascun farmaco e la verifica della sua avvenuta applicazione presuppongono gioco forza che i prezzi siano trasparenti.
Solo il NICE riesce, con straordinari equilibrismi, a mantenere i prezzi confidenziali assicurando al tempo stesso (sulla “fiducia”) l’avvenuta applicazione del "value-based pricing" (generalmente fino a 30 mila sterline per anno di vita guadagnato compreso l’aggiustamento per la qualità della vita). Oltretutto, la “regola” non è particolarmente complicata da applicare. Posto che in Europa un mese di vita guadagnato viene valorizzato attorno a 5mila euro (ovvero sia 60mila per un anno), un farmaco oncologico che mediamente prolunga la sopravvivenza di 2 mesi verrà valorizzato orientativamente a 10mila euro, a 20 mila euro se fa guadagnare 4 mesi, a 60mila euro se fa guadagnare 1 anno, etc.
Perché il "value-based pricing" dovrebbe rappresentare il punto di partenza per la negoziazione della rimborsabilità? E’ condivisibile che il negoziatore debba aver diritto ad una (limitata) elasticità decisionale in funzione di un certo numero di fattori (ad es. numero di farmaci competitor, durata della copertura brevettuale residua, dimensione della casistica o, al contrario orfanicità della patologia). Ciò significa che alcuni correttivi a “far scendere” il prezzo oppure a “farlo salire” sono necessari. Di fatto, riduzioni del prezzo reale (correttivi “a scendere”) sono determinate ad esempio dai meccanismi di rimborso degli insuccessi terapeutici (documentati sul singolo paziente), dalla scontistica prezzo-volume quando la casistica aumenta, dall’estensione delle indicazioni rimborsate, etc. Al contrario, il prezzo può salire (correttivi “a salire”) nel caso di riconosciuta innovatività del farmaco (leggasi: esonero dallo sconto obbligatorio del -5% due volte), di incentivi per i farmaci orfani, e quasi in nessun altro caso.
Poiché questi correttivi assorbono tempo, energia e risorse sia sul versante dell’industria che sul versante delle istituzioni pubbliche, la domanda che sorge spontanea è la seguente: qual è il senso di questi correttivi se il punto di partenza della negoziazione non è vincolato, anzi è lasciato libero? Per un’industria sarà sufficiente collocare il prezzo di partenza il 10% più in alto per poter poi accettare tranquillamente uno sconto del 10% nel corso della negoziazione.
Per fortuna, altri paesi applicano da tempo il “value-based” pricing e quasi sempre lo applicano cronologicamente prima di noi in relazione ad ogni singolo farmaco. L’Italia quindi si trova a negoziare prezzi che, altrove, già sono stati collocati in una fascia di prezzo alta, ma non inverosimile (grazie al “value-based” pricing altrui). Ma se una volta un’industria decidesse di negoziare il prezzo di un farmaco nuovo scegliendo l’Italia come primo paese per la negoziazione, come faremo (senza “value-based” pricing) a comprendere se il prezzo richiesto è ragionevole oppure inverosimile?
Andrea Messori
Firenze
1. AIFA Guest Editorial, di Messori A, De Rosa M, 16 Marzo 2014, sitoweb AIFA, http://www.aifa.gov.it/content/caso-avastin-lucentis-il-prezzo-di-un-farmaco-rappresenta-i-milligrammi-di-principio-attivo-
2. Quotidiano Sanità, 31 Marzo 2015
3. Quotidiano Sanità, 28 Maggio 2019
4. Quotidiano Sanità, 29 Maggio 2019
5. Quotidiano Sanità, 15 Aprile 2019
16 luglio 2019
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