Medicina e filosofia. Ecco perché sono così vicine
di Bruna Marchetti e Tiziana Mattiazzi
13 GIU -
Gentile Direttore,
da tempo, come filosofe che si interessano dei problemi dei medici e della medicina, seguiamo con grande interesse, su questo giornale, ma anche attraverso la saggistica, l’evolversi del pensiero del prof Cavicchi. Del suo vasto lavoro, a noi interessa, come filosofe, la parte più medico-filosofica, probabilmente pochi sanno che nella più importante enciclopedia filosofica del nostro paese (Enciclopedia filosofica Bompiani 12 volumi) è a Cavicchi che la comunità filosofica, apprezzando l’innovatività, del suo pensiero, ha chiesto di redigere la voce “filosofia della medicina”.
L’ultimo contributo di Cavicchi, in ordine di tempo, che ci ha indotto a scrivere questo articolo,
è quello che su questo giornale, ha riguardato, a proposito di radiazione dei medici, i rapporti stretti che legano la medicina alla deontologia o meglio l’ortodossia alla eterodossia e quindi alla deontologia. L’idea di una professione che non può che essere definita nella sua forma modale è davvero nuova e di grande interesse.
In questo ambito vorremmo raccontare l’esperienza veneziana di combinazione, contaminazione, che avviene soprattutto grazie all’ordine dei medici di Venezia, da cinque anni a questa parte tra Medicina e Filosofia.
Un’esperienza che (ci accorgiamo con sorpresa dato che non c’erano accordi in questo senso) prova a portare sul piano pratico le teorie del filosofo della medicina: la professione medica, la medicina vivono una crisi senza precedenti per molteplici fattori, se vogliono recuperare stabilità devono risanare le basi, i presupposti, le premesse culturali, devono riuscire a fortificarne la ragione medica forse datata, di sicuro vacillante.
La collaborazione tra
Libera Associazione d’Idee (di cui noi facciamo parte) e Università Ca’ Foscari e OMCeO di Venezia, si è concretizzata, negli ultimi cinque anni, nella realizzazione di percorsi di riflessione chiamati “Mercoledì filosofici dell’Ordine dei Medici” – con il metodo delle Pratiche filosofiche, e a seguire 4 convegni originali nella forma, nel contenuto e nella capacità di essere sorgivi e forieri di novità.
Il confronto aperto negli anni è un cantiere che cresce, che non teme l’interrogazione e ci fa sentire vicini al Prof. Cavicchi nel momento in cui invita al rinnovamento ideologico della professione poiché per essa va ripensata una epistemologia che consideri la complessità e che possa ispirare una rifondazione che tenga insieme ortodossia e nuove, e già presenti, frontiere.
Il terreno filosofico preferito dal prof Cavicchi infatti resta quello epistemologico ovvero la grande questione di come conoscere e cosa conoscere.
Nel percorso veneto di quest’anno – che anche in questo caso sfocerà in un convegno previsto
per il 16 e 17 giugno, ci siamo fatti guidare dal famoso mito di Prometeo che per primo ispirò Eschilo per la sua tragedia “Prometeo Incatenato”.
La tragedia continua ad essere fonte di ispirazione e, per certi versi, rappresenta quello che Cavicchi sente come indifferibile, vale a dire la riorganizzazione della ragione medica; tutto ciò ci induce a suggerire che la categoria medica riesca a guardare al Corpo Medico come ad un organismo non più sano, come fa nella pratica quotidiana con le persone. Platone nel Carmide scrive che:
“Il nostro Zalmosside, che è un dio, vuole che come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tenere conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tenere conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché esse trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte.”
Tutto il territorio entro cui la medicina si muove va rivisitato, è necessario approntare nuove mappe che ne delineino le regioni di intervento e la morfologia in accordo con una nuova capacità di guardare e di abbracciare la complessità dei sistemi entro cui questa arte si muove.
Qui Cavicchi ha uno sguardo ampio che ha di mira l'orizzonte della scienza medica e allo stesso tempo non perde di vista le insenature e le strettoie della prassi in cui i medici vedono arenare la propria azione quotidiana. Il sociologo, il filosofo, l’esperto di politiche sanitarie infatti incita con forza ad un rinnovamento della professione, ad una radicale re-visione della medicina, che partendo dalle radici (la struttura epistemologica) si propaghi ad ogni ambito del pensiero e dell'azione.
In
La complessità che cura, (2015) il libro che inaugura un capitolo nuovo dell’elaborazione filosofica di Cavicchi, quello della collaborazione con l’oncologia, a proposito della malattia neoplastica, si legge :
"Dire che la complessità cura non significa che la complessità sia un magico e misterioso principio terapeutico, ma semplicemente che il cancro e il malato di cancro vanno curati per mezzo di un'epistemologia adeguata; pertanto, tutto ciò di cui disponiamo grazie alla scienza e alle capacità relazionali dell'oncologo va riorganizzato all'interno di nuove logiche, nuovi ragionamenti, nuove conoscenze e nuove pratiche."
Insomma da Roma a Venezia, pur non conoscendo gli uni le esperienze degli altri, ci accorgiamo con piacere e soddisfazione oggi, di esserci mossi con una certa sintonia nel riconoscere, senza negarli, i malesseri della classe medica, cercando di sondarli, per quanto ci riguarda, attraverso il recupero di una unità di forze tra Medicina e Filosofia.
In antichità la Filosofia era chiamata Scienza prima, dalla quale tutte le altre prendevano nutrimento ed era la base di ogni esercizio culturale. Sancire cesure – che sembra essere una delle principali attività dell’uomo moderno e contemporaneo - non ha portato bene, né alla Filosofia, né, in questo caso, alla Medicina.
Del resto ilporre l'accento sulla necessità di una considerazione olistica del "paziente" indica la direzione verso ciò che poc'anzi abbiamo indicato come necessità della re-visione della epistemologia come della mappa che guida, attraverso i precetti del canone, la prassi della professione medica.
Ma Cavicchi quando nel suo articolo riflette sui rapporti tra ortodossia e deontologia e lamenta l’inconcludenza della terza conferenza sulla professione di Rimini, ci fa notare che la professione può essere definita solo in modo modale, cioè ci dice che essere medici e modo di essere medici è praticamente la stessa cosa, cioè che non si può ridefinire la professione medica senza ridefinire il medico e viceversa. Siamo perfettamente in sintonia nel ribadire che il medico è lo strumento migliore di cura per l'umano, prima e oltre ogni possibile innovazione tecnica
Lavorare quindi sul medico e intorno alla professione, alle prerogative, alle autonomie, ai modi di giudicare il malato, ai rapporti con i contesti: questa a nostro avviso si presenta come la premessa necessaria nella cura per il paziente, per il medico, e per la stessa medicina: un’opera salvifica a tutto tondo.
Perché nessuna macchina ad oggi ha la capacità umana di comprendere e interagire con la complessità del reale, a patto che alla complessità dell'umano siano restituiti valore e dignità.
Percorso certo non facile e tutto da inventare, ritornando al mito di Prometeo, che tanta parte ha avuto nelle nostre considerazioni, possiamo chiudere dicendo che la medicina se non vuol mancare l'appuntamento con le sfide del nuovo millennio deve ritrovare spirito innovativo, coraggio ed energia. In definitiva deve avere fegato.
Dott.ssa Bruna Marchetti
Dott.ssa Tiziana Mattiazzi
Libera Associazione di Idee, Venezia
13 giugno 2017
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore