Le demenze in Europa e USA non sono in aumento, ma in diminuzione
di Alberto Donzelli e Mariolina Congedo
16 MAR - Gentile Direttore,
nell’articolo “
Demenze, in Italia 1 milione di casi...” del 13 marzo scorso si asserisce, correttamente, che “non esiste cura (specifica. ndr.) per questa patologia”, affermando anche che la demenza “si stima in aumento con l’incremento della popolazione anziana”. L’affermazione sull’aumento delle demenze, però, è contraddetta dalle prove disponibili, quanto meno in Europa e USA.
Le demenze sono indubbiamente un problema molto grave per malati, familiari e sanità pubblica. Il maggior fattore di rischio loro associato è l’età e gli anziani sono in continua crescita in Italia e nel mondo, dove la speranza di vita continua ad aumentare. Tuttavia...
La demenza in Europa sembra diminuire
Rapporti degli ultimi anni hanno segnalato con coerenza un declino dell’incidenza di demenza e della prevalenza standardizzata per età e per criteri diagnostici in vari Paesi occidentali (Tab. 1).
Si sono aggiunti a quelli riportati in tabella altri studi su Paesi Europei, tra cui in Svezia (Goteborg) e Spagna (Saragoza), dove il calo, dal
5,2% al
3,9% (
–25%), non ha raggiunto la significatività statistica nell’intera popolazione, ma nei maschi sì (
–43%). In Svizzera uno studio su 1.600 campioni di tessuto cerebrale da autopsie di soggetti ≥65 annieseguite dal 1972 al 2006 ha mostrato un declino nei depositi di amiloide.
I risultati più robusti si hanno nello
studio inglese, che ha mostrato nel ventennio 1991-2011 un guadagno di 4,2-4,4 anni di vita liberi da qualsiasi tipo di declino cognitivo per maschi e femmine.
Leggendo fra le righe dell’ultimo Rapporto AIMA-CENSIS (24-2-2016), si può desumere che anche in Italia sia in atto lo stesso fenomeno, dato che l’età media dei soggetti con demenza di Alzheimer risulta aumentata di 5,2 anni dal 1999 al 2015, che i pazienti hanno ricevuto la diagnosi in media da 4,6 anni, che i neo diagnosticati (da meno di 4 anni) sono poco meno della metà, come nel 2006.
La demenza negli USA è in calo da 30 anni
Le tendenze temporali si ricavano meglio da monitoraggi continui di una stessa popolazione per lunghi periodi di tempo, mantenendo criteri diagnostici coerenti.
Per questo la coorte di Framingham, in cui le persone dai 60 anni sono state seguite dal 1975 per determinare l’incidenza quinquennale (corretta) di demenza, é un oggetto di studio ideale. La Tabella 2 mostra le tendenze nell’arco di tre decenni.
La riduzione, evidente soprattutto per le demenze vascolari, si é manifestata solo tra coloro che avevano almeno un diploma di scuola secondaria, la cui salute cardiovascolare è migliorata. Questa invece ha teso a peggiorare nei meno istruiti, che però erano il 36% nell’Epoca 1 e solo il 5% nell’Epoca 4, mentre i laureati sono passati dal 13% al 34%. Inoltre i fumatori sono passati dal 20% al 6%, ed è molto diminuita l’ipertensione.
Il rischio di demenza associato con fattori di rischio vascolari come ictus, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco è diminuito nel tempo, ma nessuna di queste tendenze spiega del tutto quella complessiva osservata.
L’età media alla diagnosidi demenza e aumentata da
80 anni nell’Epoca 1 a
85 nell’Epoca 4.
Punto di forza dello studio di Framingham è il lungo periodo di continua sorveglianza, tuttora in corso a partire dal 1975. Le stime di rischio sono intermedie tra i diversi Paesi e considerate molto affidabili. L’attenzione verso la diagnosi di demenza è cresciuta negli ultimi 15 anni, e ciò dovrebbe semmai tendere a far aumentare l’incidenza: per questo il riscontro di un calo dei nuovi casi risulta più indiscutibile.
Ciò non significa che nei prossimi anni
nel mondo i casi di demenza si ridurranno: poiché nei paesi a medio-basso reddito l’aspettativa di vita è in rapida crescita, la demenza e altre patologie tipiche delle età avanzate aumenteranno, ma nei Paesi sviluppati risulta in atto un’inversione di tendenza che apre una ragionevole speranza per il futuro.
Perché allora si continua a parlare di “crescente epidemia”?
Benché i dati dicano altro, i media in Italia continuano a parlare di “inarrestabile epidemia” di demenze, e spingono i cittadini preoccupati a rivolgersi a medicina predittiva e diagnosi precoce. C’è da chiedersi perché questo accada e se tutto ciò abbia senso. Secondo noi no; o meglio: non ne ha affatto per gli interessi di salute dei singoli e della comunità, né per quelli del SSN. Si propone un’interpretazione del fenomeno, motivando le nostre posizioni, nella prima scheda
Pillole di buona pratica clinica n. 139-140/2017.
Purtroppo l’attuale focalizzazione pressoché esclusiva su test “predittivi”, diagnosi precoce e terapie farmacologiche, di efficacia non dimostrata o al più di “
very low value”, ma con alti effetti avversi e costi, distoglie l’attenzione da
tante misure che si potrebbero già attuare per ridurre la probabilità di sviluppare un declino cognitivo e una demenza o per ritardarne l’esordio. Un primo elenco di tali misure, che assistiti e caregiver dovrebbero conoscere e che i medici e il SSN dovrebbero attivamente promuovere, era riportato nella Scheda di Educazione sanitaria n. 67/2011 di Cis Editore, e ulteriori integrazioni sono riportate nella
Scheda di educazione sanitaria 121/2016.
Dott. Alberto Donzelli
Specialista in Igiene e Medicina Preventiva
Dott.ssa Mariolina Congedo
Specialista in Neurologia – Distretto sanitario di Udine (ASUIUD)
Membri del Comitato scientifico della Fondazione Allineare Sanità e Salute
16 marzo 2017
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