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Questione lavoro in sanità. Proposte Cavicchi utili per salvaguardare autonomia operatori ed efficienza sistema

di Fabrizio Russo

05 NOV - Gentile direttore,
ho letto gli interventi del Prof. Cavicchi a proposito del valore del lavoro e della sua ricapitalizzazione in sanità. Alcuni elementi della proposta mi hanno particolarmente colpito e mi piacerebbe esporre le mie riflessioni in questa sede.
Ivan cavicchi evidenzia gli ambiti di intervento della “questione lavoro”:
• il malato che con meno lavoro perde diritti;
• i disoccupati che il lavoro non ce l’hanno e rischiano di non avercelo mai;
• i precari che ce l’hanno ma a condizioni effimere
• gli occupati che ce l’hanno ma con le retribuzioni ferme.

Io vorrei concentrarmi in particolare sull’ultimo di questi ambiti perché quello che meglio evidenzia la perdita di senso che il lavoro oggi subisce nella nostra società e, dato che il sistema sanitario ne è una componente, nella nostra sanità.
Non c'è, infatti, alcun dubbio, che questo lavoro abbia un suo valore, il quale senza troppi giri di parole rimane connesso e avvinghiato a colui che lo compie, un soggetto consapevole del contributo che la sua prestazione offre al miglioramento delle condizioni di salute, indipendentemente dalla sua specializzazione e che è libero di scegliere di realizzare tale prestazione nel modo migliore possibile.

Con ciò vorrei raccogliere l’invito del Prof. quando dice che “per rovesciare il rapporto costo/valore ritengo che si debba ripensare profondamente il concetto di lavoro”: a mio giudizio, il fondamento per determinare il valore del lavoro in sanità non è il genere di lavoro che si compie (medico, infermieristico…..) ma il fatto che colui che lo esegue è un operatore che agisce con una motivazione particolare. Molti sono i settori dell’agire economico e molte le prestazioni compiute da varie tipologie di operatori che possono essere eseguite con un maggiore o minore valore oggettivo, tuttavia l’unità di misura del valore del lavoro di un operatore dipende essenzialmente dal modo in cui questi lo compie, in modo da perfezionarsi attraverso lo sforzo professionale, finalizzato a soddisfare i bisogni reali di coloro che fruiranno del servizio. Le fonti del valore del lavoro si devono allora cercare soprattutto nella sua dimensione soggettiva. Occorre infatti cominciare a parlare di lavoro in relazione alla qualità dell’operatore che lo compie. Oggi, invece, si rischia che il valore del lavoro dell’operatore sia degradato a causa della massimizzazione del risparmio in nome della quale ogni ragione si pieghi. Già in altri settori produttivi oggi il lavoro è visto come un fattore produttivo da allocare su terze economie esterne all’azienda (CIG, Contratti di solidarietà, licenziamenti collettivi…..). E la sanità non sembra estranea a questo processo di alienazione; dice Cavicchi “Dopo anni di marginalismo siamo ancora lontani dal definire i modi attraverso i quali tentare una efficace allocazione e valorizzazione del lavoro come risorsa da ottimizzare….. ma soprattutto ormai il lavoro nel contesto dato tende sempre più ad essere considerato una diseconomia relativa in quanto tale”.

Valorizzare il lavoro, favorire la realizzazione di un lavoro ben fatto produce come conseguenza efficienza e allocazione appropriata delle risorse e tali risorse saranno correttamente distribuite, a mio modesto parere, se si comprende il significato autentico del lavoro come fonte di sostegno ma anche di realizzazione personale (penso che che qualunque sindacalista sarà d’accordo con questa affermazione) che esige che sia il risparmio in funzione del lavoro, e non il contrario.

Con questa premessa, mi piace il riferimento di Cavicchi all’essere azionista del proprio lavoro; a mio avviso, questo significa restituire all'operatore che lavora non solo la legittima remunerazione per il suo lavoro, ma anche il riconoscimento che egli lavorando, al tempo stesso sappia di lavorare 'in proprio', essendo imprenditore di se stesso. Occorre creare le condizioni perché l'operatore in un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare 'in proprio': “in quanto shareolder i lavoratori della sanità considerano il lavoro in sanità come un loro capitale che come qualsiasi capitale dovranno valorizzare il più possibile”.
L’effetto di “essere misurato sia sul piano dei compiti professionali da assicurare, sia sul piano dei risultati professionali da garantire” non può che essere auspicato, anche perché un tale sistema favorisce e promuove il rispetto per quella decantata autonomia che tanto si invoca e che alla fine rimane soffocata nella burocrazia dell’organigramma funzionale.

Cavicchi promuove un passaggio dal profilo professionale proprio del dipendente (subordinato o convenzionato) al reticolo professionale proprio dell’autore. E’ uno “snodo cruciale” per dare il via ad un nuovo modo di pensare il lavoro in sanità, dal quale discendono responsabilità e attribuzioni invece che mansioni e funzioni. “Definire di più e meglio la complessità del lavoro reale” significa assumere consapevolezza non solo dell’esigenza da soddisfare, ma anche del modo in cui soddisfarla.

C’è spazio in questa proposta anche per definire i criteri di remunerazione del nostro shareholder: r(remunerazione) = compiti che svolge + impegno nel valorizzare il proprio capitale professionale; il primo addendo consente a i singoli liberi professionisti di “negoziare con il management la pianificazione controllata della propria attività”; il secondo di rimanere agganciati ai bisogni oggettivi del territorio. La proposta richiede ancora una certa riflessione ma il prof Cavicchi apre una strada che potrebbe salvaguardare l’autonomia del nostro operatore, assicurare una maggiore efficienza del sistema, rispondere in modo più efficace ai bisogni di salute.
Sarebbe un peccato non approfittare di questo spunto per riflettere sul passaggio possibile da costo a valore del lavoro.
 
Fabrizio Russo
Direttore Alta Scuola
Collegio Universitario Arces 

05 novembre 2014
© Riproduzione riservata

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