La sanità e la corruzione. Se le leggi non bastano
di Michele Vullo
22 LUG -
Gentile direttore,
che la percezione dei comportamenti corruttivi sia in evidente crescita nel nostro paese è il dato che emerge dai periodici sondaggi realizzati sull’argomento dalle aziende specializzate. Nell’ultimo sondaggio della Doxa il 60% degli italiani ritiene che nell’ultimo anno la corruzione sia aumentata e che l’azione politica di contrasto sia inefficace. Alla percezione degli italiani si sommano le più solide analisi di esponenti della Corte dei Conti che stimano il costo della corruzione, nella sola pubblica amministrazione, attorno ai 50-60 miliardi di euro l’anno. Una cifra impressionante se si considerano i sacrifici richiesti ai cittadini italiani e agli stessi lavoratori della pubblica amministrazione che dal 2009 non hanno più rinnovato i contratti collettivi di lavoro.
Inoltre, a conferma della indagine della Doxa, la recente normativa anticorruzione, legge 190 del 2012 e decreto legislativo 39 del 2013, non sembrano essere percepiti dai cittadini come strumenti adeguati a ricondurre in un contesto di trasparenza e legalità i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei dipendenti delle stesse.
Le ragioni di questa sfiducia sono molteplici e molte di esse riconducibili ad una sorta di doppiezza del legislatore e delle amministrazioni pubbliche chiamate ad elaborare piani di prevenzione della corruzione. Tale “doppiezza” si concretizza, da un lato nell’enfasi posta nei provvedimenti relativamente alla individuazione dei possibili comportamenti illeciti, dall’altro nella scarsità di strumenti reali per impedire la realizzazione di comportamenti illeciti.
La stessa procedura, prevista dalla legge 190/12, per la nomina del responsabile del piano di prevenzione della corruzione da individuare tra i dirigenti di ruolo e di “prima fascia”, cioè con formale incarico di direzione di una unità operativa, ripropone la questione irrisolta delle incompatibilità. Non è altresì ipotizzabile un impiego esclusivo del dirigente nel ruolo elusivo di responsabile del piano di prevenzione della corruzione senza costi aggiuntivi per le pubbliche amministrazioni.
Analoghi problemi emergono quando occorre affrontare la disposizione relativa alla rotazione dei dirigenti che occupano postazioni ritenute ad alto rischio corruzione. Disposizione sacrosanta che però non fa i conti con una realtà come quella del sistema sanitario nazionale in cui tutti i medici sono per definizione dirigenti. È inimmaginabile la rotazione di un cardiochirurgo, di un neurologo o di un medico nucleare nonostante siano numerosi gli accadimenti, per ultimo quello che coinvolge il
San Raffaele di Cefalù, da considerare punta emersa di iceberg, che indicano la gestione dei percorsi di accesso alle prestazioni sanitarie come uno dei terreni a più alto rischio corruzione.
Ciò che mostra la corda è il paradigma normativo e contrattuale costruito nel nostro paese sulla dirigenza pubblica ed in particolare su quella del sistema sanitario nazionale. Non dobbiamo nasconderci che in questi anni abbiamo affidato la direzione di strutture più o meno complesse a dirigenti medici, nei casi migliori, ottimi professionisti ma incapaci di realizzare un piano ferie. Tale modello è cosi radicato che porta, ad esempio, il presidente della Regione Siciliana ad affermare, in una intervista a “La Repubblica”, che avrebbe scelto i direttori generali delle aziende sulla base degli interventi chirurgici realizzati. Ciò che non viene chiaramente detto è che l’attuale organizzazione della dirigenza pubblica e sanitaria in particolare è frutto di una cultura feudale in cui pesa oltremodo lo status di appartenenza e non ciò che si sa realmente fare.
In questo scenario la rotazione dei dirigenti prevista dalle norme anticorruzione non sarà praticabile se non si mette mano all’attuale normativa e modello contrattuale in direzione di una netta separazione tra i percorsi gestionali e quelli professionali, avendo anche il coraggio di dichiarare, in alcuni ambiti, il primato del ruolo professionale su quello gestionale. In una buona squadra di calcio non esiste un allenatore che guadagni più di chi fa i goals, ma l’allenatore può mettere fuori squadra chi non rispetta le regole. Dall’altra parte in direzione della separazione dei percorsi gestionali da quelli professionali spingono i vincoli imposti dalla spending review, attraverso la rigida e necessaria definizione del rapporto tra posti letto/abitanti e unità operative, che rende non più praticabili i percorsi di carriera ad oggi sostenuti dagli attuali paradigmi contrattuali. In sostanza è opportuno passare dal dirigente della struttura complessa di chirurgia generale al primo dei chirurghi generali a cui affidare responsabilità cliniche, a partire dalla formale adozione dei protocolli diagnostico-terapeutici, escludendo rigorosamente qualsiasi attività di gestione di risorse finanziarie ed umane rendendo così non necessaria la rotazione. Occorre immaginare, quindi, futuri dipartimenti diretti da medici che assumono l’onere della complessità della gestione di unità professionali complesse dirette dai professionisti dediti al governo dei processi clinici. Nel caso del direttore del dipartimento la rotazione è fondamentale, mentre il venire meno delle responsabilità gestionali può escludere la rotazione dei “professionisti”.
In conclusione è urgente aprire un confronto con le organizzazioni sindacali, pur nel rispetto dei vincoli economici, per affrontare aspetti di natura giuridico-amministrativa non più rinviabili pena l’ulteriore crescita della sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e nell’impegno ad allineare il paese tra quelli virtuosi nelle politiche di contrasto dell’illegalità e della corruzione.
Michele Vullo
Direttore Amministrativo A.O.U. Policlinico “Gaetano Martino” di Messina
Componente Esecutivo Federsanità ANCI
22 luglio 2013
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