Gentile Direttore,
condividendo il pensiero dalla Società scientifica CARD Italia di cui sono vicepresidente sento di esprimere alcune considerazioni stimolate dalla lettura del pregevole articolo della dott.ssa Claudia Zamin dal titolo “Quando il senso di appartenenza alla comunità vacilla”.
L’autrice parte dal tema delle Case “di” comunità (e non “della” comunità, secondo l’accezione usata nel DM 77/2022) in corso di apertura in Lombardia, puntualizzando sulla difficoltà di riconoscere il senso di comunità in contesti urbanizzati, prevalenti in quella regione, che spiegherebbero la non casuale semplificazione della preposizione utilizzata.
Una scelta lessicale che apre la strada alla cessione al privato della gestione di queste strutture previste dal PNRR. Nel prosieguo del ragionamento però, tocca moltissimi altri aspetti concettualmente correlati, al di là dell’argomento introduttivo. All’autrice va merito di affrontare un tema di cui si discute troppo poco: quello del “welfare community”, che mi ha richiamato alla memoria una lectio magistralis del prof. Giuseppe Marcon, dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, nel 2014, in un convegno CARD FVG sul tema dell’esternalizzazione dei servizi pubblici. In essa il Professore illustrava il passaggio dal “welfare state” (“sappiamo noi – Stato – cosa è meglio”) al welfare community, in cui la tutela della salute diventa interesse agito delle comunità (come da costituzione Italiana), attraverso l’espressione di orientamenti e di scelte,costituendo risorsa concreta per la correzione dei determinanti di salute.
Una prospettiva però poco confacente alle logiche neoliberistiche, ormai dominanti, ponendosi in contrapposizione ad un approccio mercantile dell’offerta sanitaria. Giuste, dunque, le osservazioni di Claudia Zamin sul concetto di malattia inteso come affare (business), in quanto fonte di bisogno e quindi di “prodotti” (farmaci, servizi, tecnologie) su cui si è sempre sviluppato un fiorente mercato.
A poco è valso l’impegno Oms, a partire dal 1978, a indicare la Salute come obiettivo degli Stati, intendendola in senso positivo (benessere) e non negativo (assenza di malattia). Nei fatti non ci siamo allontanati dallo schema, perché la malattia è fonte di profitto, mentre la salute no (o in minima parte).
L’impostazione ideologica neoliberista, dilagata soprattutto dopo la “caduta del muro”, ha finito per influenzare le scelte di politica sanitaria, con l’avvento dell’aziendalizzazione dei servizi sanitari pubblici (informati da modalità e prassi di “quasi mercato”), e l’adozione di criteri gestionali tipici del private for profit. Quindi, ancora oggi, prevale la logica di “offerta” ai bisogni di un soggetto “consumatore”, il malato, e non quella della tutela della salute globale (la bellissima accezione “one health”, rischia di divenire un altro slogan vuoto). Da tutto ciò l’impegno delle ASL a ridurre i costi di “produzione” (austerità, spending review, blocchi del turn over, ecc.) per raggiungere non certo un profitto, ma comunque il pareggio di bilancio (verrebbe da dire “whatever it takes” in quanto ad esiti). Ne è derivata una inevitabile e costante restrizione di investimenti verso ciò che sarebbe stato più funzionale alla creazione di un sistema di welfare comunitario, fondato sull’integrazione sociosanitaria, sulla promozione della salute, con un sostegno prioritario ai servizi di prevenzione, all’assistenza domiciliare, ai presidi territoriali (Distretto), alla Primary Healt Care, puntando convintamente al protagonismo degli Enti Locali, del Terzo Settore e delle risorse informali (famiglie, volontari, donne), lasciate sempre più sole, soprattutto per la gestione dei problemi di malattia di lungo termine e di non autosufficienza, in netta prevalenza nei problemi sanitari di tutta la popolazione.
Un altro importante accenno, nell’articolo, è relativo al cambiamento di percezione della “comunità” nelle generazioni che si sono succedute nel tempo, fino ad arrivare alla visione fortemente tecnologica (“social media”) che appartiene alle fasce d’età del nuovo millennio. Dopo una flessione su toni pessimistici, l’autrice suggerisce la prospettiva in cui gli strumenti di comunicazione informatica costituiscano un “valore aggiunto all’interno della parola comunità”. Un valore identificativo e vitale per la specie homo sapiens sapiens, al di là delle pressioni di mercato e delle possibili derive artificiali/virtuali.
Su questo ultimo “lancio”, si intravvede la necessità di ulteriori approfondimenti e scambi di idee, per far sì che le Case della Comunità, pur collocate in un ambito territoriale definito, siano polo di connessione polivalente, a disposizione di gruppi di cittadini attivamente coinvolti nella costruzione di legami di reciprocità (“cum-munus”) produttori di Salute. Una sfida che va raccolta.
Luciano Pletti
Medico specialista in Igiene e Medicina Preventiva, Igiene e Tecnica Ospedaliera, Medicina Legale e delle assicurazioni