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È l’ora di cambiare la definizione di Covid

di Salvatore Pisani 

31 OTT -

Gentile Direttore,
faccio l’epidemiologo da 35 anni e mi sono occupato di epidemiologia delle malattie infettive per molto tempo nella mia professione. Le scrivo perché, dopo quasi tre anni di pandemia, mi sembra che sia venuto il momento di cambiare la definizione di caso di COVID-19.

Già una linea guida dell’ECDC dell’ottobre 2021 suggeriva di usare, per un caso confermato di COVID-19, criteri clinici e di laboratorio. Nell’estate di quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) ha suggerito la possibilità di una seconda definizione di caso confermato che prevede il criterio clinico e/o epidemiologico unitamente al criterio di laboratorio.

Definizione di caso di COVID-19 aggiornata secondo WHO

Sicuramente è una questione al di sopra delle mie facoltà di epidemiologo di campo di una ASL-ATS lombarda e per giunta da qualche mese in pensione, ma che come molti è stato colpito sul terreno, con circa due mesi di malattia durante la prima ondata. Ma come mai in Italia si continua ad usare la vecchia definizione, che permette una diagnosi esclusivamente con il criterio di laboratorio?

Ritengo infatti che la situazione epidemiologica odierna non la giustifichi più nel nostro Paese. In verità, ho sempre ritenuto fin dall’inizio questa definizione “fuori dai normali canoni”, ma nella prima fase della pandemia, vista la situazione di emergenza, poteva anche essere giusto così.

Mi spiego meglio.

A tutt’oggi, se non erro, non esiste una sola malattia infettiva nel nostro ordinamento che non vada segnalata senza il criterio clinico. Quando mi sono specializzato era chiara la distinzione, sottoscritta dai padri dell’infettivologia nazionale e internazionale, tra infezione e malattia: la prima è il contatto anche prolungato di un agente infettivo con l’organismo umano senza lo sviluppo di sintomi, la seconda è un’infezione che causa alterazioni funzionali che sfociano in sintomi e franca patologia.

Alla fine degli anni Ottanta mi trovai a lavorare durante l’insorgenza dell’epidemia di AIDS, malattia ancora oggi diffusa in tutto il mondo: anche se si tratta di una patologia completamente diversa, lì era ben chiara la distinzione tra infezione da HIV e malattia conclamata da AIDS. E non esisteva che l’obbligo di segnalazione dell’AIDS, e non dell’infezione, anche per tutelare la dignità del paziente che era apparentemente sano. Ora, come mai da noi la diagnosi di un caso di COVID-19 si basa ancora esclusivamente su un criterio di laboratorio?

Io credo addirittura che la definizione più funzionale per la sanità pubblica possa identificarsi con la diagnosi (clinica e/o strumentale) di polmonite, confermata con test diagnostico molecolare o antigenico. La conoscenza della diffusione dell’infezione potrebbe invece farsi con una periodica rilevazione campionaria di test virologici. Dati recenti dell’Istituto Superiore di Sanità indicano che negli anziani over 70 si è verificato solo il 13% delle infezioni a fronte dell’85% dei decessi. Ecco, quanto l’identificazione precoce delle infezioni, aldilà della teoria, ha effettivamente pesato nel risparmio di decessi negli anziani?

Una definizione sensibile di caso è ammissibile in una prima fase d’emergenza, quando molti elementi, clinici e non, sono poco chiari. Ma oggi forse ne servirebbe una un po’ più specifica, e quella attuale italiana comporta semplicemente un’epidemia di tamponi. Anche perché tutte le autorità nazionali e internazionali concordano sul fatto che, quando l’infezione raggiunge livelli elevati di frequenza, il contact tracing è poco efficace e non consente di controllare l’epidemia degli infetti. D’altronde, per controllare l’infezione ci vorrebbe un esercito di operatori sanitari che non possediamo; e anche le vaccinazioni, efficaci nella prevenzione della malattia grave, si sono mostrate poco adatte ad azzerare l’infezione.

Probabilmente anche altri colleghi la pensano come me, evitando la caccia agli infetti. Riducendo l’idea (che molti cittadini hanno in testa) di essere circondati da potenziali untori. Risparmiando migliaia e migliaia di tamponi inutili da sostituire con una sorveglianza epidemiologica campionaria dell’infezione. E concentrando gli sforzi e le risorse economiche nella cura dei veri malati. Per non parlare degli effetti indiretti sull’economia, con risparmi sulle numerose lievi morbilità (oggi fortemente sotto-notificate) e sulle quarantene di massa. Anche perché l’infezione per la gente è oggetto o di demonizzazione o di minimizzazione, mentre verso la malattia credo che ancora esista un maggior rispetto.

Gentile Direttore, forse sarebbe utile che il Ministro della Salute si occupasse di tale questione. Credo che gioverebbe al Paese, migliorando il percorso intrapreso verso il ritorno alla cosiddetta normalità.

Salvatore Pisani
Epidemiologo Centro Studi FISMU



31 ottobre 2022
© Riproduzione riservata

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