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Medici di MG o di “famiglia”. Il nuovo ruolo in un nuovo contesto sociale

di Ettore Saffi Giustini

Si impone con sempre più forza il passaggio da un sistema assistenziale puntiforme e “passivo” ad uno costruito su forme di aggregazione territoriale di “iniziativa”, integrato con altre figure professionali. Ma al centro di ogni modello deve rimanere il paziente e la relazione medico-paziente.

07 MAR - I malati cronici e l’invecchiamento della popolazione costringono ogni sistema a rimodulare l’assetto organizzativo territoriale anche se con notevoli difficoltà, dato il momento di crisi generale.

Le malattie croniche hanno sostituito quelle acute come problema dominante per la salute, essendo la causa principale di uso dei servizi, consumando il 78% dell’intera spesa sanitaria. Hanno cambiato il ruolo del medico (di famiglia), che da “unico” gestore della cura, diventa membro di un team multiprofessionale, in grado di elaborare il piano di cura e di assistenza che tenga conto della molteplicità dei bisogni, così come di garantire la continuità dell’assistenza.

Hanno cambiato il ruolo del paziente, che da soggetto passivo, diventa protagonista attivo della gestione del proprio stato di salute, assumendo comportamenti e stili di vita adeguati.

Il medico di famiglia non può più lavorare attraverso interventi “puntuali e tra loro scoordinati”, ma ha bisogno di chiedersi e di sapere, per esempio, quanti sono i pazienti con particolari patologie, le loro comorbilità, come essi sono trattati, se hanno raggiunto determinati obiettivi di salute, se hanno criticità gestionali (e quindi se corrono particolari rischi clinici) e tra essi quali sottogruppi generano costi elevati e\o comprimibili con una migliore strategia assistenziale.

Nelle cure primarie si deve passare da un sistema assistenziale puntiforme e “passivo” ad uno costruito su forme di aggregazione territoriale di “iniziativa” che si faccia carico dei malati cronici cioè affetti da diabete, bronchite cronica, scompenso, ipertensione arteriosa in modo integrato con altre figure professionali all’uopo formate come infermieri, dietisti, fisioterapisti ed alcuni specialisti.

Nell’ambito delle cure primarie, la figura infermieristica sta diventando sempre più rilevante, soprattutto per le complesse modalità organizzative necessarie per la gestione delle malattie croniche. Tali condizioni richiedono infatti l’individuazione di percorsi prevedibili della storia naturale e quindi un approccio programmato, secondo una logica prevalentemente prognostica e preventiva, anziché sintomatica e attendista, come accade abitualmente.

La nostra preoccupazione in vista dell’apertura di nuovi ospedali (si passa da 700 a 400 posti letto), che sarà per intensità di cura, è la mancanza sul territorio di strutture intermedie, soprattutto sanitarie. Infatti, l’analisi delle richieste dei cittadini (siamo passati per un medico con mille assistiti da 7mila contatti/anno del 2001 e oltre 11mila nel 2010) se da una parte evidenzia il ruolo sempre più strategico delle cure primarie all’interno del sistema sanitario, dall’altra ha avuto effetti pesanti sul carico di lavoro e di responsabilità che si è abbattuto sugli operatori di prima linea, in particolare i medici di famiglia.
 
Il  mix di disease management, controllo di qualità e P4P offre alle cure primarie e ai medici di famiglia l’opportunità di conquistare la leadership in una sanità che ancora non riesce a trovare una ricetta efficace e credibile nella lotta contro le malattie croniche. Una leadership necessariamente fatta di alleanze (con un ampio ventaglio di figure professionali e, prima ancora, con i propri assistiti) e accountability (ovvero la capacità di rendere conto con dati alla mano, in ogni momento, dei risultati del proprio lavoro).

La cornice concettuale del Ccm (Chronic Care Model) prevede esplicitamente la centralità del paziente, ma lo stesso prof. Edward Wagner, elaboratore del modello, nell’articolo in cui viene fatto il bilancio di 10 anni di esperienza ammette che il modello è stato usato e ha funzionato bene nella gestione di singole malattie, in primis il diabete, diventando inevitabilmente disease-centered. Pay-for-performance – scrive B. Starfield – ha la potenzialità di aiutare a migliorare la qualità dell’assistenza se ciò può essere allineato con gli obiettivi dei professionisti. Tuttavia, iniziative che forniscono incentivi per pochi specifici elementi di una singola malattia o condizione rischiano di porre in secondo piano la complessità dell’assistenza del paziente nel suo insieme, specialmente se si tratta di un paziente anziano con malattie croniche multiple.

Tali programmi possono portare a selezionare i pazienti, a “giocare con gli indicatori” piuttosto che a focalizzarsi sui bisogni della persona, e al disallineamento delle percezioni tra medico e paziente. Il focus primario dei movimenti per la qualità non dovrebbe essere il “pay for”, né la “performance”, ma piuttosto il paziente”.

Anche sulla spinta delle riflessioni di B. Starfield, l’American College of Physicians ha approvato nel 2007 un Manifesto etico dal titolo “Pay- for-performance principles that promote patient-centered care” dove si legge: “Le misure di qualità dovrebbero rendere riconoscibile l’assistenza globale d’eccellenza.  Esse devono premiare l’efficace gestione delle forme complesse di co-morbilità, venendo incontro ai bisogni di supporto e di comunicazione dei pazienti, garantendo  la continuità dell’assistenza e gli altri elementi distintivi dell’assistenza globale. Tutti gli indicatori devono sostenere e valorizzare un’appropriata assistenza al paziente e la relazione medico-paziente”.

Ettore Saffi Giustini
Medico di medicina generale
Commissione Ccm Fimmg sezione di Pistoia; commissione terapeutica Reg. Toscana; Simg Area Politiche del Farmaco



Fonte: Remunerazione dei medici di famiglia e qualità dell’assistenza di G Macioco, pubblicato su Salute Internazionale

 


07 marzo 2012
© Riproduzione riservata

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