Medico di pronto soccorso sospeso dalla professione per "visita ginecologica invasiva" senza consenso
È legittima la misura cautelare della sospensione dalla professione medica, sia in ambito pubblico che privato per 12 mesi (il massimo previsto), per il medico di pronto soccorso indagato, e con "gravi elementi indiziari" a suo carico, per violenza sessuale ai danni di una paziente. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nei confronti di un medico che a fronte di un dolore alle gambe manifestato dalla paziente, l’avrebbe costretta a una visita ginecologica non richiesta ed esplicitamente rifiutata e, comunque, senza consenso. LA SENTENZA.
05 GIU - Medico di pronto soccorso sospeso dalla professione (sia nel pubblico che nel privato) per “gravi elementi indiziari” per violenza sessuale ai danni di una paziente.
Il medico, a fronte di un dolore alle gambe manifestato dalla paziente, l’avrebbe costretta a una visita ginecologica non richiesta ed esplicitamente rifiutata e, comunque, senza consenso.
La Cassazione (sentenza 24653/2019) ha respinto così l’appello del medico contro la decisione del Tribunale e della Corte d’appello sul carattere “dirimente dell'assenza del consenso manifestato dalla vittima allo svolgimento della visita ginecologica”.
Il fatto
Una giovane donna si era presentata nella struttura ospedaliera lamentando forti dolori alle gambe. Il medico di turno, per tutta risposta, l'aveva sottoposta ad una visita ginecologica non solo non richiesta ma anche osteggiata e condotta con modalità inadeguate “accarezzandole le parti intime” e cessata solo perché la ragazza era riuscita a divincolarsi e uscire dalla stanza raccontando tutto ai familiari ed ai Carabinieri.
La sentenza
Secondo la Cassazione è legittima la misura cautelare della sospensione dalla professione,
“Chiaro infatti – si legge nella sentenza -, che la persona offesa, già scettica rispetto alla necessità di prestarsi alla visita, che poco aveva a che fare con il dolore da lei lamentato, aveva fatto affidamento sul corretto esercizio della professione da parte del medico”.
“Solo quando aveva compreso le reali intenzioni del sanitario - si legge nella sentenza - rese palesi dalle ripetute carezze effettuate sulla zona genitale, sicuramente non conformi alle tecniche necessarie per procedere all'ispezione ginecologica, e all'introduzione ‘movimentata’ delle dita all'interno della vulva, si era ribellata, girando bruscamente la gamba e manifestando, in tal modo, il proprio chiaro dissenso. Nonostante ciò, l'indagato non aveva desistito e aveva spinto la persona offesa con violenza sul lettino, palpandole il ventre ed il seno, finché la stessa era riuscita a sottrarsi e uscire repentinamente dalla stanza”.
Per motivare la durezza della pena “è palese – secondo la Cassazione che l'indagato si ritroverebbe nella possibilità di porre nuovamente in essere le condotte di violenza di cui si discute, dal momento che svolge l'attività medica ed è costantemente a contatto con pazienti di ogni età. Certamente, non rileva il fatto che il medico non sia uno specialista in ginecologia perché, nel caso di specie, ha posto in essere la condotta contestata proprio suggerendo alla persona offesa di sottoporsi ad una visita ginecologica che nulla aveva a che fare con il malessere fisico da lei lamentato".
"Tanto basta - prosegue - a fronte delle generiche valutazioni difensive di segno contrario proposte con i ricorsi, per ritenere sussistenti le esigenze cautelari per l'applicazione della misura dell'interdizione dallo svolgimento dell'attività nella sua massima durata, nonché per giustificare la sua estensione allo svolgimento dell'attività privata, per nulla diversa da quella pubblica con riferimento alla sussistenza del rischio di reiterazione della condotta contestata”.
Inoltre non solo la paziente non si era mostrata consenziente allo svolgimento della visita ginecologica, ma aveva espressamente manifestato il proprio dissenso alla prosecuzione delle attività “poste in essere dal medico quando si era accorta che le stesse esulavano dal perimetro sanitario , senza che l'indagato desistesse dalla perpetrazione dell'abuso”.
Per i giudici la manifestazione del dissenso “non deve ricercarsi nella fase antecedente alla visita (sebbene la vittima abbia più volte riferito di aver manifestato la propria resistenza)”, come sostenuto dal dal medico, “bensì nel momento in cui, prima convinta della competenza e professionalità del sanitario, aveva percepito l'anomalia della sua condotta e si era dunque ribellata".
Per queste ragioni la Cassazione ha respinto il ricorso del medico, confermando la condanna e aggiungendo l’onere delle spese del provvedimento.
05 giugno 2019
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