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Ricerca Usa: una donna su tre è vittima di abusi sessuali in ambiente medico

di Maria Rita Montebelli

Statistiche inquietanti quelle ricordate in uno degli ultimi numeri dell’anno del New England Journal of Medicine. Un argomento scabroso del quale si preferisce non parlare o che sale gli onori delle cronache (si fa per dire) solo quando il carnefice è estraneo all’ambiente di lavoro, magari un paziente, come nei recenti gravi fatti di violenza ai danni di due donne medico in Italia. L’autrice dell’articolo analizza i tanti perché di questa situazione e propone delle strategie di salvataggio per le vittime, mutuate da altri ambienti di lavoro

15 DIC - Dottoresse e infermiere sono di certo meno famose e chiacchierate delle star hollywoodiane, ma non per questo l’ambiente medico è estraneo alla questione #MeToo. Anzi, c’è chi fa giustamente notare, che in questo contesto gli ingredienti per un sexual harassment da manuale, ricorrono proprio tutti e all’ennesima potenza: ambiente maschilista, posizioni apicali quasi sempre occupate da uomini, ‘opportunità ambientali’ quali turni di notte e letti a portata di mano, magari quelli del day surgery inutilizzati nelle ore notturne.  
 
Della questione torna ad occuparsi questa settimana sulle pagine del New England Journal of Medicine, Reshma Jagsi dell’Università del Michigan, Ann Arbor (Usa); la sua è una riflessione amara che mette in discussione anche il suo stesso comportamento, sia in occasione di un’avance sessuale non denunciata, ma anche davanti al timore che i suoi articoli sugli abusi sessuali ai danni del personale sanitario femminile possano far pensare a qualcuno che lei ne parli come vittima, anziché come ricercatrice (la Jagsi ha pubblicato una ricerca su questo argomento lo scorso anno su Jama).
 
Perché dunque è così difficile vestire i panni della vittima di un abuso sessuale? La Jagsi d’istinto sostiene che non vorrebbe mai che la gente pensasse che qualcuno dei suoi stimati collaboratori maschi fosse l’orco che ha ispirato le sue ricerche, perché non potrebbe mai perdonarselo.
Ma, inutile negarlo, la verità è molto più complessa e articolata di questa spiegazione superficiale. Ed è assai triste per le vittime.
 
Le maggior parte delle vittime di abusi sessuali in ambiente medico o accademico non arriva mai a denunciare il fatto per paura di diventare anche vittima di mobbing, da parte dei superiori (maschi) e spesso anche dei colleghi che non vogliono avere a che fare con una donna vissuta come ‘piantagrane’,  ‘rompiscatole’, o come una visionaria, o come qualcuna che vuole sfruttare un’accusa così infamante per avere qualcosa in cambio.
 
Denunciare un abuso sessuale da parte di un collega e di un superiore è un elemento di forte destabilizzazione sul posto di lavoro; per questo la vittima, finisce con l’essere vittima due volte, avendo osato mettere in discussione lo status quo, provocando un terremoto con la sua denuncia infamante.
“Le vittime non hanno vita facile nella nostra società – scrive l’autrice – Io aspiro a diventare una leader nell’ambiente accademico medico. Essere bollata come vittima, offuscherebbe la mia narrativa”.
 
E così, il fenomeno degli abusi sessuali tra camici bianchi – afferma l’autrice – finisce con l’essere decisamente sottostimato, sottaciuto, nascosto come un segreto infamante; salvo poi scoprire, attraverso i questionari anonimi delle ricerche che, in questo ambiente di lavoro, una donna su tre riferisce di essere stata molestata sessualmente da colleghi o superiori. Qualcuna anche dai pazienti. Le donne sono più vulnerabili a questo tipo di abusi sia quando vengono percepite come deboli e indifese, che quando sono così forti da mettere in discussione le gerarchie tradizionali.
 
E in Italia non esistono dati in proposito ma le cose potrebbero essere anche peggiori di quanto sta emergendo negli Stati Uniti, visto il nostro collaudato repertorio di film di serie B, nei quali l’infermiera o la dottoressa – sempre interpretata da attrici bellissime e procaci – è un oggetto sessuale ben contento di ricevere le pruriginose attenzioni di qualche medico o paziente. Un luogo comune pericoloso che avalla e porta a tollerare una serie di comportamenti, che in un contesto civile andrebbero censurati all’istante, senza se e senza ma. E senza aspettare di arrivare ai recenti gravissimi episodi di violenza ai danni di donne medico.
 
Il profilo psicologico della vittima di violenze sessuali
L’autrice riferisce di essere stata contattata, all’indomani della pubblicazione delle sue ricerche, da molte donne medico, vittime di abusi sessuali mai denunciati. Il profilo psicologico delle vittime è spesso molto simile: l’autostima va in briciole e si comincia a pensare di essere in qualche modo responsabili dell’accaduto, di averlo provocato magari inconsapevolmente. Per paura di essere bollate come rompiscatole che, con la loro denuncia finiscono col gettare fango e infamia non solo sull’abusatore ma su tutta l’istituzione, ci si chiude in un silenzio colpevole, nel quale la vittima finisce col diventare carnefice di se stessa.
 
Denunciare l’abuso può compromettere la carriera
Si ha addirittura paura di affrontare l’argomento in termini scientifici all’interno dell’ospedale, prosegue l’autrice che si è sentita chiedere se organizzare un workshop sul sexual harassment rischiasse di trasformarsi un suicidio per la carriera.
Ed è sempre pensando alla carriera che molte si tengono dentro per anni il ‘fango’ di un’attenzione (o molto peggio) non desiderata, né mai richiesta. Ma non è una convivenza facile, è qualcosa che mina ancora più profondamente l’autostima, lo star bene con se stesse. E quando, a volte a distanza di tanti anni, si ha il coraggio di uscire allo scoperto, magari seguendo la scia di altre donne che hanno avuto la forza di denunciare un abuso ricevuto, si finisce con l’essere ricoperte di insulti (‘millantatrici, approfittatrici, carrieriste’) spesso anche da parte dalle colleghe.
 
Situazioni gravi o quanto meno terribilmente spiacevoli che ti restano appiccicate addosso come una ‘lettera scarlatta’ d’infamia per tutta la vita; che portano a mettersi in discussione anche sul piano lavorativo. Come fa l’autrice dell’articolo sul NEJM, ripensando ad un pericolo scampato: “Perché la mia borsa studio (l’autrice aveva vinto una prestigiosa borsa di studio, alla quale ha rinunciato per paura di ritrovarsi sotto le grinfie di un chirurgo che aveva tentato di abusare di lei) non era sufficientemente importante da permettere a quest’uomo di vedermi come una collega, autrice di importanti ricerche, capace di formulare idee di valore, anziché trasformarmi in un oggetto?”
 
Alla ricerca di possibili soluzioni
Non è facile denunciare un abuso, neppure pensando che in questo modo si potrà risparmiare la drammatica esperienza ad altre in futuro. Ma anche chi vuole chiedere aiuto, spesso non sa da che parte cominciare. E’ necessario istituire un ‘porto franco’, una ‘zona sicura’ dove le vittime si sentano accolte e non accoltellate. E negli Usa, la comunità scientifica, ha realizzato qualcosa di simile. Si chiama ‘astronomyallies’ (www.astronomyallies.com), un primo punto di contatto per le vittime di abusi sessuali con persone che non giudicano ma sono lì per indirizzare le donne verso i giusti passi da fare, verso le giuste persone da contattare.
Una comunità di volontari, nata nel mondo degli astronomi, per aiutare le vittime di abusi sessuali a tornare a godere di un cielo stellato, a testa alta appunto.
Senza doversi nascondere dietro una vergogna che deve tornare ad essere di altri. Di chi abusa e non delle vittime.
 
Maria Rita Montebelli

15 dicembre 2017
© Riproduzione riservata

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