I primi vent'anni dei profili professionali. Cosa è cambiato per i 600mila professionisti della salute
di Saverio Proia
L'anniversario verrà celebrato martedì prossimo dal Conaps. Ripercorriamo le tappe di questa profonda riforma delle professioni sanitarie, infermieristiche, ostetriche, tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.
14 SET - Come è noto negli ultimi venti anni è stata avviata e realizzata una profonda riforma delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione,e della prevenzione nonché della professione di ostetrica, sia nell’aspetto ordinamentale che in quello formativo, quale esigenza di adeguamento all’evoluzione scientifica e tecnologica della sanità, ai nuovi bisogni per una diversa organizzazione del lavoro e all’integrazione del nostro Ssn nella Ue.
Si tratta, infatti, di una scelta che ha anche radici extranazionali quali le raccomandazioni in materia del Consiglio d’Europa e la constatazione che già altri Stati Europei ed Extraeuropei avevano da anni fatto propria questa evoluzione con indubbie ricadute positive per i cittadini. Ad iniziare dagli anni 80 si prende coscienza nel Paese della necessità di riformare nel percorso formativo e nelle funzioni quell’insieme di profili sanitari definiti sia professioni sanitarie ausiliarie e alcune arti sanitarie, che comunemente venivano definiti per negazione (non medici) o per approssimazione (paramedici) quasi mai con il proprio nome.
I promotori di questa riforma erano la parte più consapevole di queste professioni e della stessa professione medica che avevano constatato l’arretratezza e la inadeguatezza della nostra legislazione in materia rispetto ai modelli più avanzati e funzionali degli altri Stati e all’evoluzione legislativa, scientifica e tecnologica della stessa la sanità italiana La bandiera della riforma delle professioni sanitarie, fu fatta propria anche dal sindacato confederale che la mise al centro della sua iniziativa e delle stesse piattaforme contrattuali, addirittura in un’intesa propedeutica al rinnovo contrattuale raggiunta con l’allora Ministro alla Sanità Donat Cattin, prevedendo:
-il requisito della maturità per accedere ai corsi ed il loro passaggio all’università;
-il venir meno dell’aggettivo “ausiliaria” nel termine professione sanitaria;
-l’istituzione dei servizi infermieristici e delle altre professioni;
-l’adozione di nuove modalità organizzative non più medico-centriche;
-l’istituzione di albi ed ordini per tutte le professioni sanitarie;
Quasi tutte le forze politiche ed il Governo raccolsero questa richiesta presentando varie proposte di legge, che, purtroppo, in varie legislature non si riuscì ad approvarle definitivamente: per questo si colse l’occasione del varo del dlgs 502/92 per prevedere almeno la struttura portante della Riforma delle professioni sanitarie inserendo il terzo comma dell’articolo 6 che nel trasferire la formazione all’università, la faceva svolgere all’interno del Ssn con docenti di norma da questo dipendente ed affidava al Ministero della Salute il compito di individuarne i profili professionali.
Quindi la fase iniziale della storia della riforma delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche e riabilitative si era caratterizzata in una lunga odissea di tentativi di iter legislativo che non trovava la possibilità di approvare un testo quadro di legge nelle varie legislature precedenti sino a che si viene a dar corso ad una fase completamente differente e più avanzata: infatti il nodo fondamentale sul quale al senato nelle legislature precedenti si arenarono i vari progetti di legge venne risolto positivamente con poche righe nel decreto legislativo 502/92 cioè il rapporto fra università e servizio sanitario nazionale.
Infatti il punto 3, art. 6, legge n. 502 del 1992 ha certamente determinato una svolta nel processo di evoluzione della legislazione sulle professioni sanitarie che ancora, a torto sino ad allora venivano impropriamente definite “paramediche” e/o ausiliarie. La formulazione emersa nella legge n. 502 del 1992 aveva, anche per giudizio delle rappresentanze sindacali e professionali di questo personale, risolto nel modo più progressivo ed equilibrato la questione principale attorno alla quale nelle precedenti legislature si erano sviluppati sia il dibattito che i contrasti nell’iter legislativo del disegno di legge di riforma delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche e riabilitative, con il dicotomico atteggiamento fra i due rami del parlamento e le iniziative unilaterali del Ministero dell’università.
Quest’ultimo con l’emanazione di decreti attuativi della legge n. 341 del 1990, per alcune attività sanitarie, secondo logiche del tutto avulse dai bisogni professionali del servizio sanitario nazionale e dalle connesse necessità di contenuti didattico-formativi, aveva creato condizioni di pesante difficoltà, di fatto determinando condizioni di doppio o triplo binario formativo e non riconoscendo il ruolo di committente del servizio sanitario e delle Regioni.
Sotto questo profilo non può, peraltro, non rilevare come l’impostazione recepita dal decreto legislativo in tema di formazione in campo sanitario sia sostanzialmente sovrapponibile con quella del disegno di legge, di riforma delle professioni infermieristiche nella legislatura precedente al varo del d.lgs. 502/92, che trovò l’approvazione unanime della XII Commissione in sede legislativa.
Si tratta dell’”alto compromesso”, il lodo tra Regioni e università in tema di formazione delle professioni sanitarie concretizzato dall’allocazione in “sede ospedaliera” termine ovviamente di una parte per il tutto, cioè presidi e servizi del Ssn, di tale formazione, recuperando il pregnante contenuto di esperienza concreta e valore professionalizzante della struttura ospedaliera, sede di elezione per una didattica finalizzata, e sviluppando coerentemente in sede applicativa le prospettive aperte al sistema universitario della legge n. 341 del 1990, riguardante i diplomi universitari.
L’“alto compromesso” quindi non veniva soltanto a sottolineare l’innegabile coincidenza fra gli interessi nazionali tipici degli ordinamenti, di cui si parla, ma anche il peculiare apporto del servizio sanitario nazionale ed università nel percorso formativo di figure professionali, che avevano assunto e vieppiù assumeranno nell’ambito del sistema sanitario del nostro Paese grande rilievo.
A ben vedere in questa impostazione confluì il presupposto collaborativo fra presidi sanitari ed università già delineati - nell’ambito dell’assistenza - nel rapporto contrattuale previsto dall’articolo 39 della legge n. 833 del 1978, nonché le riflessioni maturate in ordine all’applicazione della succitata legge n. 341. Tali riflessioni, infatti, inducono a sottolineare come non potevano non essere ribaditi i ruoli e le specifiche funzioni dell’università e del servizio sanitario, rappresentative anche degli interessi regionali.
Da un lato
l’università non poteva non ribadire la sua funzione di alta formazione teorico-scientifica e metodologica, che si sostanzia nel mantenimento dell’esercizio formale del riconoscimento universitario ex lege n. 341, del titolo. Dall’altro il servizio sanitario nazionale, scontando anche l’inerzia ma anche la trascuratezza in cui per troppo tempo il settore era stato tenuto, non poteva non rappresentare, attraverso i suoi presidi, la base “strumentale” - come nel caso dell’assistenza - anche in termini di esperienze formative svolte nel corso dei decenni da parte regionale e da parte degli enti locali.
Poi, lungi dall’attivare improbabili sanatorie di esperienze pregresse, si trattava di procedere ad una non più rinviabile riforma del settore, che prevedeva anche una sostanziale bonifica, che doveva essere promossa e garantita essenzialmente dall’università.
Sicché, se per un verso vi era la necessità di offrire strumenti alla stessa università (basterebbe valutare importanti contributi di presidi di facoltà e di docenti preoccupati da carenze strutturali e finanziarie, nonché da quella che alcuni chiamavano “inesperienza specifica”) dall’altro si tratta si recuperare in positivo le esperienze regionali, trasferendole ad altro ordinamento e chiudendo così una stagione contrassegnata da sperimentazioni ed iniziative assunte sotto il segno dell’urgenza e della non programmazione. Infine, una penetrante valutazione della decretazione attuata in virtù della legge Ruberti non poteva non indurre a constatare come l’impostazione data si configurava come scardinante della giusta logica di valorizzazione delle professioni sanitarie.
Appariva, per le considerazioni svolte, del tutto fuori luogo o comunque superata quella antinomia fra la “via universitaria” e la “via regionale” alla formazione del personale tecnico ed infermieristico. L’ambito in cui la formazione veniva, finalmente a svolgersi è compiutamente e formalmente universitario e gode dell’apporto delle Regioni e del servizio sanitario nazionale, attraverso modalità trasparenti, certe e verificabili.
Ma, tornando al decreto, il sistema formativo che veniva proposto faceva fare un balzo in avanti al nostro Paese.
Dall’ultimo posto che l’Italia occupava in materia nella Comunità europea ora si poteva collocare fra quelli più avanzati: il merito maggiore di questo provvedimento è quello di aver spazzato via il grave pericolo del doppio canale formativo, uno di presunta serie “A” quello universitario ed uno di presunta serie “B” quella del servizio sanitario nazionale e regionale, con i gravi rischi a cui questa operazione poteva dar vita, facendo prevalere alla fine una formula ragionevole di equilibrio fra ruolo e competenze dell’università e del servizio sanitario nazionale; infatti nel nuovo modello formativo veniva a registrarsi una piena identità tra quanto elaborato dal Parlamento come proposta di legge ed il nuovo dettato legislativo attraverso:
-l’unitarietà e omogeneità del riordino della formazione per infermieri, tecnici-sanitari e terapisti;
-elevazione al diploma universitario di cui all’articolo 2 della legge n. 341 del 1990, del titolo abilitante all’esercizio di tali professioni;
-riconoscimento che gli ordinamenti didattici di tali diplomi universitari, per la loro specificità, debbano prevedere il concerto con il Ministro della sanità, ferma restando la titolarità del Ministero dell’università;consolidamento e valorizzazione della funzione didattica del servizio sanitario nazionale attraverso l’attuazione nella legge del principio che all’interno di tale sistema si svolge la formazione del personale sanitario infermieristico tecnico e riabilitativo;
-mantenimento, previa verifica di idoneità, delle attuali sedi formative del servizio sanitario nazionale e loro rapporto convenzionale con le università che permette l’adozione degli ordinamenti didattici dei diplomi universitari ed il rilascio dei relativi diplomi a firma del responsabile della scuola e del rettore dell’università competente;
-affidamento degli insegnamenti di norma a personale del ruolo sanitario dipendente della struttura ove è allocata la scuola, quindi difendendo e valorizzando la funzione di docenza di infermieri, tecnici-sanitari e terapisti, nonché del restante personale; previsione che il responsabile della scuola sia nominato in base alle norme vigenti: quindi, consentendo la conferma della direzione infermieristica dei relativi corsi, estendere questo modello ai corsi per tecnici e terapisti;decorrenza immediata del diploma di maturità per i corsi non trasformati ancora in corsi di diploma universitario con la possibilità per tre anni, in carenza di iscritti con questo titolo culturale, di iscrivere giovani con il solo biennio di scuola superiore;
-certezza dei tempi attraverso la soppressione di quei corsi di studio che entro tre anni non si siano trasformati in corsi di diplomi universitari e potere di surroga dei Ministeri di sanità e dell’università se entro quattro mesi dalla costituzione delle nuove Usl e aziende ospedaliere non siano state stipulate le convenzioni.
Quindi pur nei limiti della delega erano contenuti nel decreto legislativo alcuni elementi innovativi che andavano nella direzione del superamento nei fatti del concetto di definizione di professione sanitaria ausiliaria.
In particolare la pari dignità con gli altri ordini dei collegi delle altre professioni sanitarie nell’esprimere pareri ma soprattutto nella composizione del nuovo “consiglio dei sanitari” di Usl o azienda ospedaliera che vedeva la presenza dei rappresentanti di tutte le professioni sanitarie laureate e non; purtroppo non veniva accettato dal Governo l’emendamento sull’istituzione del servizio infermieristico, come quelli delle altre professioni; per questo bisognerà attendere l’approvazione della legge 251 nel 2000.
Pertanto, in attuazione di quanto previsto dall'art. 6, comma terzo del decreto legislativo 30 dicembre 1992. n. 502, recante: "riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421" così come è stato modificalo nel testo dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n.517 furono firmati dal Ministro della Sanità, on. Costa, i primi tredici decreti del 14 settembre 1994 con i quali sono stati individuali altrettanti profili professionali riguardanti il personale infermieristico, tecnico sanitario e della riabilitazione e precisamente:
1 ) infermiere,
2) ostetrica,
3) fisioterapista,
4) logopedista,
5) ortottista-assistente di oftalmologia,
6) tecnico di radiologia medica,
7) tecnico di laboratorio medico,
8) tecnico ortopedico,
9) tecnico audiometrista,
10) tecnico audioprotesista,
11 ) dietista,
12) igienista dentale.
13) podologo.
Negli anni seguenti i profili divennero 22: oltre 600.000 professionisti produttori di salute...
Alla firma di questi decreti da parte dell'allora Ministro della sanità si era giunti dopo un periodo di pressioni e di iniziative contrapposte all'interno degli operatori del Servizio sanitario nazionale che non ha precedenti nel nostro paese: nelle precedenti legislature, come si è detto, si era tentato con uno specifico provvedimento di dare soluzione ad un'arretratezza nel nostro ordinamento professionale e del conseguente sistema formativo, unica rispetto non solo agli altri stati dell'Unione europea ma anche rispetto a paesi cosiddetti in via di evoluzione, in particolare nei confronti di quelle professioni sanitarie denominate "infermieristiche, tecniche, della riabilitazione e della prevenzione".
Questo provvedimento legislativo non si riuscì ad approvarlo definitivamente anche per la breve durata delle legislature precedenti che impedì il completarsi dell'iter di approvazione di questa proposta di legge, anche se, paradossalmente, nelle varie fasi veniva approvata senza palesi contrasti.
Per superare questo stato di cose e per far si che almeno le questioni principali della riforma delle professioni sanitarie infermieristiche. tecniche e riabilitative divenisse realtà legislativa, per felice intuizione di alcuni deputati ed esperti del settore furono inserite alcune norme, anticipatrici di tale riordino, nel decreto legislativo 502/92 cosi come è stato modificato dal decreto legislativo 517/93.
Una di queste anticipazioni consiste nella norma prevista dal terzo comma dell’articolo 6 del d.lgs. 502/92, per la quale è affidato al Ministro della sanità il compilo di individuare con proprio decreto ministeriale quei profili per i quali prevedere la formazione prevista dal citato articolo 6, cioè il diploma universitario di cui all’art. I della I. 341/90.
È stata questa una modifica ed un’innovazione fondamentale rispetto alla preesistente realtà:
finalmente viene affidato al mercato del lavoro, in questo caso il Servizio sanitario nazionale, il ruolo di individuale le figure professionali necessarie ed al sistema universitario il compito di formarle, ferma restando la titolarità dell'università nel varare i relativi ordinamenti didattici dei vari diplomi universitari, questi, proprio per il ruolo affidato al committente (il Ministero della sanità), devono essere con esso definiti ed emanati “di concerto".
Era questa la prima volta che avveniva nella storia dell’ordinamento universitario italiano.
L’interpretazione estensiva della norma
Per attuare questa delega fu insediata dall'allora Ministro della sanità, on. Maria Pia Garavaglia, una commissione tra i dirigenti competenti di tale dicastero e sei assessori regionali alla sanità (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio e Calabria) con il compito di predisporre gli schemi di decreto ministeriale dopo aver, ovviamente, approfondito le problematiche.
Con proprie proposte scritte presentate a tale commissione Stato-Regioni sia il sindacato confederale che l’associazionismo professionale, intuirono che l’emanazione di questi decreti non poteva essere solo un elenco di quei profili per i quali prevedere la formazione ma, attraverso i diplomi universitari, doveva anche riuscire ad identificare ambiti di competenza ed autonomia professionali, legittimando così l’elevazione alla formazione universitaria e ricostruendo in forma più avanzata ed europea il rapporto tra le varie professioni sanitarie, ivi compresa quella di medico.
Si sarebbe così superata la preesistente legislazione, che prevedeva il rapporto di dipendenza gerarchica tra il medico e le altre professioni sanitarie non laureate: con questi decreti per la maggioranza di queste professioni non citate nel testo unico delle leggi sanitarie veniva a colmarsi tale lacuna, riconoscendole finalmente quali professioni.
È questa l’idea forza che è stata “dominante e vincente” in tutte la vicenda riuscendo a muovere il personale interessato e quello che indirettamente riteneva di essere coinvolto, i medici e le altre professioni sanitarie laureate: basti pensare che a difesa di questi profili, per la prima volta nella storia dell’associazionismo professionale e sindacale, si è dato vita ad un movimento unitario che ha avuto una ricchezza di iniziative culminate addirittura in uno sciopero del comparto del personale della sanità, con una manifestazione nazionale di 50.000 operatori sanitari a Roma in piena estate, promossa ed organizzata insieme dai sindacati e dai collegi e associazioni professionali.
Ma questa può sembrare solo cronaca bensì, invece, evidenzia quale interesse e movimento può esservi dietro ad atti che apparentemente sembrano essere semplici adempimenti amministrativi ma che, invece, per la loro valenza possono divenire effetto e causa di profonde modifiche e riforme nell’organizzazione del lavoro e nel rapporto tra le professioni all’interno dei servizi pubblici in genere ed in ispecie in quelli sanitari.
È bene, però, ricordare che il Ministro della sanità, non accogliendo le richieste di revocare tali decreti firmati dal suo predecessore, presentate dal sindacalismo autonomo e dall’associazionismo professionale della componente medica, inviò gli schemi di decreti in questione al parere del Consiglio di Stato che, nella seduta de: 4 luglio 1994 espresse in adunanza generale un parere non solo positivo ma illuminante del valore di tali decreti. In questo parere il Consiglio di Stato ha evidenziato, in particolare che:
-questi decreti hanno natura regolamentare, prevedendo il riferimento all’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988 n. 400, in effetti si tratta di profili professionali utilizzabili tanto nella sanità pubblica quanto in quella privata e quindi anche in regime libero-professionale, stabilendo norme abilitative a comportamenti coerenti con i compiti caratterizzanti ciascun profilo;
- i decreti in questione dispongono rapporti con altre professionalità, medico compreso, fissando quindi limiti normativi all’esplicazione dell’attività professionale, così come viene delineata negli stessi decreti;
-il fatto che questi decreti sono destinati ad esplicare la loro efficacia anche al di fuori dei singoli servizi e presidi sanitari pubblici esclude la possibilità di poterli considerare atti normativi '‘interni”;
-la definizione delle figure e dei profili professionali, prevista dal più volte citato art. 6 del d.lgs 502/92, è preordinata alla identificazione di compiti di assistenza sanitaria, rispetto ai quali impostare programmi di formazione professionale in ambito ospedaliero, in base al principio legislativo della collaborazione tra università e Servizio sanitario nazionale, definizione che costituisce, altresì, la premessa indispensabile per assicurare l’esplicazione dell’efficacia abilitante all’esercizio professionale (v. terzo comma dell’art. 6 suindicato);
-questi decreti non modificano le fonti di diritto di valenza superiore a quella tipica del decreto regolamentare ministeriale e quindi non vi può essere nessuna invasione di campo nelle competenze già attribuite per legge ad altre professioni sanitarie laureate, ivi compresa quella di medico;
-premesso che per competenza la normativa sui profili professionali è adottata con decreto ministeriale, considerato che la delineazione di tali profili, per quanto riguarda la sanità, rientra tra le materie riservate allo Stato, art. 6, lettera q, legge 23 dicembre 1978 n. 833, non è pregiudicato il ricorso alle specifiche procedure preordinate alla determinazione degli specifici profili professionali nell’ambito della disciplina del rapporto di impiego;
-tali procedure hanno lo scopo di adattare i profili professionali alle particolari esigenze organizzative dell’amministrazione e definire i corrispondenti trattamenti economici;
-infine, le finalità alle quali rispondono i decreti in base al più volte ricordato art. 6 del d.lgs. 502/92, e cioè l’esercizio professionale e la formazione, fanno sì che il profilo professionale deve essere definito nella maniera più precisa possibile, per evitare che i profili siano determinati in forma generica con difformi interpretazioni della norma nelle singole aree geografiche o realtà lavorative.
La storia continua…Questa stupenda avventura continuò e continua con altre tappe…dalla legge 42/99 ai giorni nostri; infatti per il fatto che con l’ atto di minore valore giuridico, qual è un decreto ministeriale, furono attribuiti autonomia, competenza e responsabilità a 22 professioni sanitarie, era evidente la debolezza dell’operazione che non avrebbe garantito il pericolo di un ritorno indietro per questo il Ministro Bindi presentò un ddl, approvato all’unanimità dal Parlamento divenendo la legge 42/99 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”.
L’impianto normativo sopra descritto fu perfezionato, quindi, successivamente dalla legge 26/02/1999 n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” la quale sancisce che la denominazione “professione sanitaria ausiliaria” è abolita e sostituita dalla denominazione “professione sanitaria”; inoltre l’art. 1 di questa legge , al comma 2, così recita:
“Il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie di cui all'articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post-base nonché degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l'accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali”.
Con questa legge si chiude un processo di valorizzazione ed emancipazione di oltre 600.000 lavoratori, perlopiù lavoratrici, dal rapporto ancillare con altre professioni: a cinque anni di distanza dall’emanazione dei profili professionali si abolì il termine “ausiliaria”riferito a queste professioni, restituendo loro il diritto al nome : non più paramedici o non medici, ma professioni infermieristiche, tecnico-sanitarie, della riabilitazione, della prevenzione e della professione di ostetrica.
La legge 42 costituì la seconda fase della Riforma, si rendeva necessario dar corso a una successiva fase che la perfezionasse e per questo fu varata all’unanimità la legge d’iniziativa parlamentare n. 251/00 che divenne la vera legge quadro del settore: “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione di ostetrica”
L’art. 1 della successiva legge di riforma quadro delle professioni sanitarie, n. 251/2000 che così recita per le professioni di infermiere e di ostetrica (concetti simili vengono espresse nei successivi articoli tre per le altre aree professionali):
“1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell'area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza.
2. Lo Stato e le regioni promuovono, nell'esercizio delle proprie funzioni legislative, di indirizzo, di programmazione ed amministrative, la valorizzazione e la responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo delle professioni infermieristico - ostetriche al fine di contribuire alla realizzazione del diritto alla salute, al processo di aziendalizzazione nel Servizio sanitario nazionale, all'integrazione dell'organizzazione del lavoro della sanità in Italia con quelle degli altri Stati dell'Unione europea.
3. Il Ministero della sanità, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, emana linee guida per:
a) l'attribuzione in tutte le aziende sanitarie della diretta responsabilità e gestione delle attività di assistenza infermieristica e delle connesse funzioni;
b) la revisione dell'organizzazione del lavoro, incentivando modelli di assistenza personalizzata”
Per effetto di questo quadro normativo è dato osservare che ciascuna delle 22 professioni sanitarie:
-è una professione autonoma (art. 1 l. n. 42/1999 e art. 1, comma 1, l. 251/2000), essendo stata abrogata la definizione di “professione sanitaria ausiliaria” ex art. 1, comma 1;
-l’oggetto della professione è costituito dalle “attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva” (art. 1, comma 1, l. n. 251/2000);
-le funzioni proprie della professione sono definite “dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza” (art. 1, comma 1, l. 251/2000);
-ulteriori funzioni possono essere stabilite dallo Stato e dalle Regioni “nell'esercizio delle proprie funzioni legislative, di indirizzo, di programmazione ed amministrative”.
Questo concetto è esaltato e rafforzato dalla portata della previsione dell’art. 1, comma 2, l. n. 251/2000 là dove attribuisce espressamente allo Stato e alle Regioni il compito di promuovere, nell'esercizio delle proprie funzioni legislative, di indirizzo, di programmazione ed amministrative, “la valorizzazione e la responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo delle professioni infermieristico - ostetriche al fine di contribuire alla realizzazione del diritto alla salute, al processo di aziendalizzazione nel Servizio sanitario nazionale, all'integrazione dell'organizzazione del lavoro della sanità in Italia con quelle degli altri Stati dell'Unione europea”.
Quanto sopra evidenzia che la valorizzazione e responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo della professione infermieristica e delle altre professioni sanitarie ad opera dell’attività, legislativa ed amministrativa, dello Stato e delle Regioni deve essere realizzata alla luce e nel rispetto:
-della competenza propria della professione, che si identifica con le “attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva” (art. 1, comma 1, l. n. 251/2000);
-dell’evoluzione dei percorsi formativi definiti dalle istituzioni universitarie e formative per la professione dell’infermiere, come di ognuna delle altre professioni sanitarie; le professioni sanitarie pertanto non sono più configurate quali “ancillari” alla professione medica ed hanno visto riconosciuta la propria autonomia professionale, come una “normale” professione intellettuale.
Le leggi 42 e 251 segnano il definitivo abbandono del ruolo “residuale” proprio di tali professionisti riconoscendogli pari dignità rispetto alle già esistenti professioni della salute... Ma mancava e manca l’ultimo tassello di questa riforma: la trasformazione da collegi ad ordini e l’istituzione di albi e ordini per le professioni sprovviste, che pure era presente nel primo ddl governativo che divenne la legge .42 e poi ritirato.
E’ bene precisare prima alcuni fatti:
-l’Autorità garante per la concorrenza stabilì che laddove esiste un diritto costituzionalmente garantito possa essere previsto l’ordine per le professioni che lo tutelino;
-l’ordine dei medici nacque oltre 100 anni sulla spinta delle componenti più progressiste della categoria;;
-gli ordini furono sciolti dal regime fascista e ricostituiti dopo la Liberazione;
-gli ordini ed i collegi delle professioni sanitarie si sono sempre schierate per la difesa e il potenziamento del SSN universale e solidaristico sino al mantenimento della tutela sanitaria anche per chi è senza permesso di soggiorno e dell’obbligo di non denunciarlo;
-promuovono una politica di allargamento occupazionale alle nuove generazioni.
E’ vero che è necessaria una riforma del loro funzionamento interno e del loro ruolo e per questo fu varata la legge 43/06 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali”; come è noto la delega non fu esercitata in tempo e in questa Legislatura la Commissione Sanità del Senato è impegnata a risolvere questa ulteriore capitolo della riforma all’interno del ddl Lorenzin, forte anche di specifici progetti di legge in materia presentati da quasi tutti i gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione.
La legge 43 sancisce, anche, una nuova articolazione delle professioni, al loro interno, in riferimento alla acquisizione di titoli universitari: professionista, professionista specialista, professionista coordinatore, professionista dirigente.....il professionista specialista è l’unico non ancora concretizzato e costituisce la sfida per il futuro prossimo che si spera possa prender vita con l’attuarsi degli accordi sulle competenze avanzate e specialistiche degli infermieri e delle altre professioni sanitarie.
Questa meravigliosa storia continua ad essere, quindi, ad essere ancora scritta e certamente troverà ulteriore spinte innovatrici del disegno di legge che dovrà essere scritto in virtù dell’articolo 22 del Patto per la Salute 2014/2016; l’avventura prosegue…..
Saverio Proia
14 settembre 2014
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