Spending review? Sì, e facciamola sul serio. Anche in sanità
di Ettore Jorio
Sembra essere la volta buona dopo decenni di spesa pubblica irresponsabile. Ma sulla sanità è partita l’inevitabile diatriba. Mentre tagli veri e importanti si potrebbero fare senza danni all’assistenza. Per esempio, via l’Agenas e tante altre cattedrali del deserto, passando dalla spesa politica all'investimento produttivo
06 APR - Dopo decenni caratterizzati da una irresponsabile corsa ad incrementare la spesa pubblica, strettamente funzionale a racimolare il massimo del consenso possibile; dopo avere ridotto la pubblica amministrazione nello stato come essa si trova, piena zeppa di “imboscati””, i c.d. distaccati, frutto di concentrazioni soprattutto nella Città eterna di chiunque avesse voglia di trasferirsi ivi dalla periferia, a spese della PA di provenienza, a sua vota rimpinguata di unità lavorative figlie delle diverse tipologia di stabilizzazione, buone a dribblare le procedure concorsuali; dopo avere invaso la sanità: di cooperative degne del più bieco caporalato, utile a garantire clienti alla politica e di esternalizzazioni funzionali a superare il blocco del
turnover; del frequente regime di
prorogatio elusivo del ricorso alla gare pubbliche per perfezionare acquisti soprattutto di servizi, del tipo quello delle pulizie, concentrate in capo a strutture societarie degne di fatturati da fare invidia alle multinazionali più agguerrite, è finalmente arrivata la
spending review.
Non più quella semplicemente prevista, promessa e minacciata. E’ giunto Renzi a Palazzo Chigi e, con lui, è arrivata quella vera fatta di tagli incisivi e amputazioni, ma soprattutto di verità. E’ quanto si legge nella volontà
del Premier. E’ quanto asserito dal bravo Carlo Cottarelli. E’ quanto si deduce dalla autocritica costruttiva che, pare, stia facendo il MEF e dintorni, dopo avere contribuito per anni a gonfiare i costi della politica e affini. Da una parte, ha infatti dato l’impressione di essere la rigida espressione degli adempimenti comunitari di perseguire l’assoluto rispetto dei parametri relativi al
deficit e del debito pubblico. Dall’altra, ha sensibilmente contribuito all’incremento della spesa “chirurgica” (
rectius, mirata ad ingigantire prebende e clientele) e favorito i soliti plenipotenziari seduti in pianta stabile in via XX settembre, garanti di nomine produttive di retribuzioni che assumono, ciascuna, il costo di dieci operai ben pagati ovvero di 20 giovani appena retribuiti.
Dunque arrivano i tagli lineari compatibili con la buona pratica e quelli chirurgici finalizzati a produrre risparmi miliardari (
rectius, antisprechi) a fronte di uno sfollamento organico al miglioramento delle
performance che una pubblica amministrazione, affollata di risorse inutili e ingombranti sul piano della inattività, non riesce a fare, piena zeppa com’è di unità lavorative amministrative, spesso
sine titulo.
In relazione alla sanità è insorta una non facile diatriba, che era naturale attendersi, stante le abitudini consolidate della politica. C’è di mezzo il mare tra ciò che sostiene il Ministro - che fa come ogni “buon” ministro che è d’accordo sui tagli purché non incidano sul proprio ministero - e quanto invece suggerisce la coscienza dei decisori impegnati nella
spending rewiew. Specie all’indomani della incauta dichiarazione del ministro Lorenzini di
riconoscere ad una Calabria, abbandonata più che mai alla non tutela della Salute e con gli ospedali che scoppiano, miglioramenti di sistema, ingenerando il dubbio che non sappia neppure dove tale regione sia, al netto dei Bronzi di Riace.
E’ vero, sulla sanità c’è tanto da tagliare ma anche tanto da dedicare in termine di risorse fresche. Occorre passare dalla spesa “politica” all’investimento produttivo, capace di fare ammortizzare nel tempo quanto impiegato garantendo i migliori risultati da subito.
Quanto ai tagli occorre avere il coraggio di dire ciò che occorre, incidendo anche sulle cattedrali che hanno fatto la fortuna di tutti. Esempi. Via l’Agenas, organismo inutile e peraltro diseducativo delle Regioni, disabituate a programmare il loro intervento salutare, elaborato per procura con piani operativi standardizzati e spesso rivenduti in copia da una Regione ad un'altra, refusi compresi.
Via i commissariamenti, esempi dei peggiori progetti ragionieristici fini a se stessi che perseguano i risparmi desertificando i servizi, al lordo dei
sub-commissari al seguito, riciclati anch’essi “per nuovi” da una Regione all’altra, dopo avere fatto guai in quella di provenienza. Via gli
advisor inutili, raccomandanti dalla burocrazia, destinatari di retribuzioni annue pluri-milionarie. Via le duplicazioni direzionali rese possibili attraverso atti aziendali strumentali a sancire gli abituali
favor ai dirigenti amici, al fine di procurare loro la titolarità di unità operative complesse e semplici, che non si negano più ad alcuno.
Via gli straordinari a tutti e la retribuzione premiale omnibus che ha assunto la configurazione di un diritto da esigere a prescindere dai disastri ivi constatabili. Via i raduni nazionali nei diversi
Forum che garantiscono lauti compensi agli organizzatori, ferie a tutti e occasioni per favorire “affettuosi” incontri. Insomma, via la politica dalla sanità e, con essa, il malcostume che ne deriva. Entri pure l’uniforme esigibilità del diritto alla tutela della salute nel rispetto assoluto del costo-utilità (costituzionale)!
Prof. avv. Ettore Jorio
Università della Calabria – Fondazione trasPArenza di Cosenza
06 aprile 2014
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