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Non sparate sul Pronto Soccorso

di Ettore Jorio

I pronto soccorso ospedalieri sono oggetto di una campagna mediatica senza precedenti. A bene vedere, però, prendersela con loro significa valutare (negativamente) la punta dell’iceberg trascurando il magma che c’è sotto. Lì, pronto ad esplodere.

27 FEB - In questo periodo si sta assistendo ad un’aggressione mediatica che non ha eguali che ha come destinatari i pronto soccorso ospedalieri. Non si comprende se strumentale a perseguire qualche obiettivo strategico ben definito ovvero se interessante sotto il profilo dello scoop giornalistico. Sta di fatto che se ne parla tanto e malissimo, tanto da screditare il sistema pubblico che, a fatica, si rende comunque garante di una prestazione apprezzata.

Nel merito, una tale aggressione è da considerarsi errata nei termini e nell’identificazione del vero “colpevole”.
Al di là di un maggiore impegno delle istituzioni a che gli stessi funzionino meglio - che ci sta tutto - l’aggressione all’attuale sistema delle emergenze rappresenta, infatti, un errore che allontana dai problemi reali.  Esso “pronto soccorso” è, invero, incolpevole, fatte le dovute eccezioni (se accertate) per le responsabilità personali degli operatori che si dovessero rendere inadempienti ai loro doveri (ma è molto raro).
L’unica colpa, quella più grave, risiede nella tradizionale cultura sanitaria che omette di dedicare all’emergenza le maggiori attenzioni organizzative e le migliori professionalità, atteso che la stessa assume il ruolo più centrale nell’esercizio delle prestazioni del livello assistenziale ospedaliero. Da esso dipendono, infatti, il corretto ricevimento dei pazienti, l’individuazione del giusto percorso assistenziale, l’immediatezza delle scelte e la capacità di bene discriminare. Opzioni, queste, che pretendono i migliori al posto giusto, anche sotto il profilo psicologico-caratteriale.
Perché un errore aggredirlo? Il pronto soccorso costituisce la punta del sistema, quella più esposta alla domanda incontrollata dell’utenza e più soggetta all’esame critico, più diretto ed estemporaneo (quindi, più produttivo sul piano televisivo). In esso vanno a riassumersi e a prendere corpo quasi tutte le inefficienze della macchina assistenziale, prima fra tutte quella territoriale.
 Il suo naturale affollamento si determina, quindi, allorquando i diversi servizi disseminati sul territorio funzionano poco e male, a cominciare da quello garantito dai “medici di famiglia”. E non perché siffatte figure professionali non lavorino, bensì perché sono trascurate, spesso abbandonate dalle istituzioni al loro libero arbitrio.

Lo straordinario ricorso al servizio emergenziale avviene, pertanto, nell’ipotesi in cui la (ri)programmazione dell’organizzazione della salute - del tipo quella che dovrebbe necessariamente accompagnare soprattutto il cosiddetto piano di rientro - manca del tutto. Quello strumento di pianificazione dell’intervento che dovrebbe coinvolgere e responsabilizzare i diversi livelli e gradi di assistenza.
E’ il formarsi della famiglia “assistenziale” che costituisce il grande problema italiano. Quella che dovrebbe sorgere dalle ceneri della deospedalizzazione attraverso la più ampia concertazione, allo scopo di stimolare la massima sensibilizzazione sul problema, nei confronti del quale tutti, se opportunamente coinvolti, offrirebbero la loro collaborazione.
In caso contrario, ecco il corto circuito!
In tutto questo, non si salva neppure il resto. Tant’è che è facile individuare disfunzioni organizzative della macchina endo-ospedaliera. Con le diagnostiche prive di ciò che serve per ottimizzarne il funzionamento. Con le terapie specialistiche non più garanti dei servizi - orfani di risorse umane ed economiche - che, altrimenti, sarebbero capacissimi di rendere. Con le prestazioni accessorie che vengono assicurate dai parenti degli ammalati, piuttosto che dalla medesima istituzione di ricovero.
 Insomma c’è da prendere atto di un decadentismo progressivo nella sanità italiana, che viene da lontano e raggiunge oggi l’apice della negatività.
I motivi. E’ dato constatare in questo periodo (vecchio oramai di oltre un decennio) dieci regioni con piani di rientro e cinque commissariate. Tali regioni contano circa la metà della popolazione nazionale (29 mln). Per una strana combinazione (!), tra queste, le regioni con i peggiori servizi di pronto soccorso, pieni zeppi di blitz televisivi, cui seguono le dovute ispezioni ex post (es. Roma e Napoli).

In una simile situazione si consolida “doverosamente”, per una legge non scritta, l’obbligo esclusivo di dare conto dei danari. Così facendo diventa impossibile dare corso ad una corretta esecuzione delle politiche salutari regionali. A tutto questo va ad aggiungersi una rete di controlli, soprattutto ministeriali, non propriamente all’altezza dei loro compiti quanto a garanzia delle prestazioni assistenziali.
Le maggiori responsabilità sono ovviamente delle regioni che fanno male il loro mestiere, impegnandosi (quando va bene) in termini ragioneristici e disattendendo la programmazione, quella vera. Sfuggono, infatti, dal riprogettare la loro macchina assistenziale, addirittura indebolita da quegli inconcepibili egoismi territoriali che tendono a riempire di strutture fisiche le aree cui si è più affezionati a discapito delle altre.
Premessi tali difetti, diventa davvero difficile mettere in piedi l’assistenza che non ha mai funzionato. Soprattutto farlo ridimensionando la spesa corrente, fino a ieri garantita a pioggia.
A bene vedere, prendersela con i pronto soccorso significa valutare (negativamente) la punta dell’iceberg trascurando il magma che c’è sotto. Lì, pronto ad esplodere.
Insomma, il solito brutto vizio di giudicare gli effetti senza individuare le cause, sulle quali incidere.
Dunque, ci sarà bisogno di trasformare gli attuali piani di rientro in tipici strumenti pianificatori di ampio respiro, così come originariamente intesi dal legislatore (legge 311/2004), che li ha nominalmente definiti programmi operativi di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento dei servizi sanitari regionali.
Un modo per prendere atto di ciò che non ha mai funzionato, concentrare le risorse su ciò che serve e ridare protagonismo alla rete assistenziale, riconoscendo un ruolo primario (e forse più sorvegliato) ai medici di base, da incentivare e meglio retribuire localmente, in regime di risultato reale e validato.
Quanto appena prospettato potrebbe costituire il modo per ridare al servizio pubblico l’immagine che esso merita, nonché per assicurare la migliore produttività godibile per la collettività in termini di esigibilità dei Lea, da rideterminarsi e integrarsi principalmente nella componente socio-sanitaria.
Un obiettivo meritevole di attenzione, che diventa verosimilmente conseguibile separando istituzionalmente il gravoso “problema di ieri” dal “progetto del domani”, che dovrà essere riformulato e implementato a tal punto da esprimere correttamente le necessarie valutazioni sulle responsabilità, che saranno via via assunte, e sulle performance prodotte, fino ad oggi trascurate, da rilevarsi, nel prosieguo, a sistema e periodicamente.
Occorre, pertanto, l’elaborazione di un progetto correttivo dell’esistente, funzionale a dare certezza, trasparenza e credibilità alla gestione dell’ordinario, da ottimizzarsi nell’ottica della programmata spending review.
Il tutto non può prescindere dalla separazione della gestione del debito pregresso (che ammonterebbe a circa 40 miliardi di euro), da delegare ove mai ad una apposita agenzia nazionale, da quella corrente, sulla quale peraltro inciderà sensibilmente l’introdotto criterio dei costi standard.
Altrimenti? Il governo della spesa rimarrà ingovernabile, così com’è oramai da sempre.
 
 prof. avv. Ettore Jorio
 Docente di diritto sanitario all’Università della Calabria (Facoltà di scienze politiche)

 

27 febbraio 2012
© Riproduzione riservata

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