I Forum di QS. Quale ospedale per l’Italia? Gostinelli: “L’ospedale e la comunità”
di Marcella Gostinelli
Il malato, dovremo iniziare a considerarlo ospite e non ricoverato. L’accoglienza dovrà essere intesa come processo che inizia prima che il cittadino si ammali, nella comunità, nella fase liminare e post liminare della malattia. Negli ospedali la clinica deve diventare più relazionale. L’ospedale cosi diventa un tutt’uno con la comunità
12 LUG - Ho letto i diversi articoli apparsi in questo Forum, fortemente critici verso il PNRR in generale e verso il tema della assistenza ospedaliera in particolare. Il contributo della FNOPI fa eccezione, dichiara entusiasmo per il PNRR, suggerisce di risolvere le criticità esistenti nella realtà ospedaliera attuale con le specializzazioni infermieristiche, gli infermieri di famiglia e gli ospedali di comunità.
Sono tutti pareri autorevoli, riferiti spesso alla propria disciplina, e dai quali ho anche molto imparato. Io, però, porto uno sguardo infermieristico divergente, lontano da quello comune, poco utilizzato perché poco rappresentato ma, secondo me, ora opportuno perché offre una conoscenza tacita, ma genuina, aderente alla realtà che insegna a pensare e a non limitarsi ad accogliere i pensieri.
La sensazione “di una fretta finale nel chiudere questa parte di PNRR per colmare una lacuna di cui ci si è resi conto (..)” ,evidenziata in particolare dal Dott. Palumbo, è una sensazione che condivido, ma credo che la scarsa attenzione, la fretta, a mio avviso lo scarso risultato prodotto, e producibile, dal PNRR non sia riferibile solo al tema della assistenza ospedaliera, ma all’intero pensiero politico del politico sul sistema, alla ideologia neoliberista, mai messa seriamente in discussione, da cui tale pensiero si sviluppa, e alla cultura che tale pensiero guida e determina.
Risultato scarso, dicevo riguardo al PNRR, perché la pandemia, dice Cricelli (presidente SIMG, Askanews.it, 28 ottobre 2020), di fatto divenuta una sindemia, cioè un insieme di patologie pandemiche, non solo sanitarie, ma sociali, economiche, psicologiche, di relazioni umane e quindi culturali, “avrebbe richiesto di controllare i microfenomeni casa per casa, individuo per individuo ,famiglia per famiglia”.
E fin qui sono d’accordo con Cricelli, ma non sono d’accordo con lui quando dichiara che questo compito debba essere affidato all’unico comparto sanitario e medico pensato per queste finalità, la Medicina generale. Penso invece che lo sguardo sindemico avrebbe richiesto non un compito da affidare all’autoreferenziale di turno, ma una vera riforma della sanità, e della scuola almeno, per impedire le iniquità.
A questo proposito, e a supporto del mio pensiero, cito il libro di R. Horton (Covid-19. La catastrofe, cosa non ha funzionato,
Il Pensiero Scientifico,
2020) dove l’autore riporta, nell’ultimo capitolo, un pensiero del filosofo sloveno Slavoj Zizek, che afferma: “La covid-19 cambierà le società, i governi, le persone, la medicina, la scienza”, ed io penso che sia stato realmente cosi, ad eccezione dei governi.
Per queste ragioni, sono convinta che il DM 70 non debba essere aggiornato, come ha detto Speranza, (QS, 24 marzo), ma dimenticato senza retaggi nostalgici (Cognetti-Cavicchi) perché nonostante abbia ristudiato il DM 70, seguendo i 12 punti di ritrattazione suggeriti da Maffei, questi, mi sembra, non rispondano alle esigenze di un approccio sindemico e neanche alle criticità, che condivido, evidenziate, per la riflessione, negli 8 punti da Cavicchi nel suo articolo di avvio al forum.
Non credo, come dice il ministro Speranza a proposito del DM 70, che l’errore consista solo nell’aver riorganizzato l’ospedale senza aver potenziato il territorio e non credo neanche che con le Case di comunità e gli ospedali di comunità egli abbia risolto il problema atavico dell’integrazione. Credo, invece, che l’errore sia stato, e sia, quello dell’assenza di una politica complessa ,che pensa bene , moralmente densa, eticamente non approssimativa.
Credo anche che l’errore l’abbiamo fatto noi della “Polis” che abbiamo smesso di fare politica, di pensare bene, consapevoli che il bene sia un valore trascendente, e per questo irraggiungibile, ma smettendo di pensare non siamo più autonomi rispetto a chi ci governa, e ci siamo perciò abituati ad accogliere pensieri già fatti senza avere la necessaria cura di noi.
Non ci interroghiamo più su quali siano le cose buone, essenziali per una vita buona, ma purtroppo neanche i politici si interrogano più sulle cose essenziali. “La politica sembra essere diventata un luogo dove s'incontrano persone che fanno della propria autorealizzazione il fine ultimo del proprio impegno, sacrificando ogni costruzione paziente di passioni comuni, facendo coincidere il bene comune con le loro stesse carriere, giustificando così ogni tipo di comportamento, compreso il seguire servilmente il loro leader”. (Paul Ginsborg, Sergio Labate).
Fra le cose essenziali alle quali pensare, sicuramente, la cura, comprese le ragioni ontologiche della cura e la cura di sé, sia del politico, che della polis. Le cose essenziali non sono le cose minime da garantire ad un malato, sono le cose da pensare per primo senza le quali non c’è servizio adeguato. Questa la bella intuizione di Cavicchi.
L’alta complessità clinica, dott. Gerli, senza l’ospitalità, senza interconnessioni capaci di assicurare livelli complessi di relazioni, direttamente con il malato, fra servizi e malato, fra le persone malate, le relazioni di informazione, sensibilizzazione con la comunità dei cittadini di riferimento, le relazioni con gli enti locali, non garantisce un ospedale pensato per la cura del malato perché questo tipo di relazioni sono tutte volte, a favorire la coabitazione, la buona vita per il malato.
Per questo, il malato, dovremo iniziare a considerarlo ospite e non ricoverato; l’accoglienza dovrà essere una funzione che assiste il sistema nell’apprendere modi di essere relazionali e non più l’accettazione amministrativa o la reception con l’hostess; l’accoglienza dovrà essere intesa come processo che inizia prima che il cittadino si ammali, nella comunità, nella fase liminare e post liminare della malattia, secondo un flusso continuo garantito da organizzazioni polimorfe, poco strutturate ed adhocratiche capaci di accompagnare il cittadino ed il malato con figure infermieristiche di comunità e cittadini che fungano da tutor per l’accoglienza ospitale nella comunità, capaci di favorire spazi di salutogenesi, spazi di mediazione sociale, spazi di discussione, spazi di interrelazione formale che permettano di canalizzare il bisogno sommerso su di un canale formale e che siano per questo interconnessi con i servizi di accoglienza ospedaliera. Negli ospedali la clinica deve diventare più relazionale. L’ospedale cosi diventa un tutt’uno con la comunità
Suggerisco al dott. Maffei che chiedeva di declinare l’ospedale adeguato, ospitale, interconnesso, di cercare fra i progetti di umanizzazione di Agenas e troverà un esempio di ospedale toscano reso operativo dal 2010 al 2016, con queste caratteristiche ed anche di più, almeno fin quando è piaciuto alla politica locale.
L’incongruenza di senso e di significato sulla cura e sul luogo di cura, tra malati e politica, politica e professionisti e tra professionisti e malati impedisce un legame organizzato, prossimo, tra bisognosi di cura nella comunità e le istituzioni della cura nella comunità. Questo porta all’ospedale minimo di cui Cavicchi parla e sempre per questo il linguaggio utilizzato nel PNRR, non corrispondente alla realtà dei fatti, rileva anche la negazione di un corpo morale che è la comunità.
Quello di comunità è un termine, a cui il politico” - e chi condivide le attuali logiche politiche, accettandole, anche ob torto collo - “ha dato gli orizzonti che ha voluto, senza preoccuparsi se qualcuno sarebbe stato in grado di discernere se trattasi di una comunità o no” .
E spesso ci ritroviamo a parlare di comunità in maniera automatica, dimenticando invece che è un termine moralmente denso, che racconta un insieme distinto, che insieme si raccoglie su un valore, un onere, un dono condiviso. Questo contenuto rende il termine difficile da usare con presenza e quando usato in maniera significativa, si nota” (da “Una parola al giorno”). E nel PNRR non lo si nota.
La pandemia però c’è stata, ha determinato un disastro; parola non inerme, ma vitale, nasce dal dolore interiore provocato dalla sofferenza della malattia, dalle morti, dalle solitudini, dal senso di abbandono nella cura domiciliare; dalla paura di ammalarsi, dagli ospedali e dal sentirsi prigionieri in essi. Questo non avrebbe dovuto essere politicamente sdrammatizzato, evitato, semmai andava ascoltato e da quel dolore reale iniziare a pensare per costruirsi una mappa del fare che si formi lungo il cammino di ricostruzione per andare realmente oltre il disastro, nella consapevolezza che ciò che era prima di esso ora non è più.
Per progredire dovremmo slegarci dal già fatto, dal convenzionale, dalle conoscenze già condivise, determinatesi attingendo alle stesse strutture logiche di sempre ed alla stessa piattaforma culturale pre-disastro.
Guardare oggi all’esterno di noi - il noi è il politico, il professionista sanitario, gli scienziati, il cittadino sano - il mondo, nello specifico nostro gli ospedali, i malati, la malattia, la comunità, la politica con le stesse basi epistemologiche di sempre, con la solita intenzione gestionale-amministrativa, con le stesse aspettative di prima e con lo stesso pensiero algoritmico-computativo, senza tener conto dei prodotti dei processi sociali che si sono determinati durante la pandemia, ci fornisce una conoscenza vecchia, sfruttata, priva di pensiero e riflessione e quindi non reale, e permettetemi di dirvi “priva della virtù essenziale della politica che è la tenerezza” (L. Mortari, 2021) verso la polis. In questa conoscenza non reale gli ammalati sono “azzardati” negli ospedali di oggi; come lo sono stati in pandemia.
Sarebbe come “vivere in un mondo anticipato”, direbbe Anna Arendt, perché i politici sono talmente dentro alle loro idee riguardo al mondo, agli ospedali, ai malati, che vedono solo quello che le loro idee gli consentono di vedere e che abbiamo visto fino ad oggi. Ma anche per noi è cosi ed infatti ci i stiamo imbarbarendo.
Non limitiamoci solo a dire qui quello che pensiamo, torniamo a fare politica , lavoriamo insieme sulle domande essenziali obbligando i politici a dare una direzione di senso ai processi di cura ed educativi.
La politica deve vedere il nostro dolore, e imparare a produrre pensieri di cura con una mente non solo intellettualistica ma capace di nutrirsi anche di sentimenti, sensazioni, intuizioni.
Occorrerebbe il coraggio di ascoltarci, di non negarci come esseri umani politici che vogliono prendersi cura davvero delle cose e delle persone. Grazie
Marcella Gostinelli
Direttore Generale RSA-RA, Siena
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12 luglio 2021
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