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Manzoni, la negazione della realtà (della peste), e l’analogo atteggiamento circa le Raccomandazioni Siiarti sull’emergenza Coronavirus

di Maurizio Mori

La lezione di Manzoni ci ha consentito di vedere meglio come avvenga il processo di negazione di realtà (sgradevole e non facile da accettare: la peste o la selezione). L’auspicio è che, almeno oggi, si evitino gli errori più grossolani e che, come consigliava Manzoni, si segua “il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”.

26 MAR - In questi giorni di volontaria casalizzazione mi sono riletto i tre capitoli de I promessi sposi dedicati alla peste. Il primo di questi capitoli, il 31esimo, è dedicato al tema della negazione della realtà della peste, che non poco ha contribuito alla diffusione dell’“orribile flagello”. Tendiamo a rifiutare fatti negativi, sgradevoli e ripugnanti, il cui impatto su di noi è tanto sconvolgente da portarci a negarne la realtà.
 
Manzoni esamina come ciò sia avvenuto nel caso della peste di Milano del 1630. La sua analisi può essere utile per capire meglio le reazioni che oggi si riscontrano verso le Raccomandazioni Siaarti sul Coronavirus. In questa prospettiva è illuminante rileggere Manzoni.
 

“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia”. Manzoni si propone non solo “di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi [Renzo e Lucia]; ma di far conoscere insieme, […] un tratto di storia patria più famoso che conosciuto”.
 
Le cronache e le relazioni di allora – osserva – sono caratterizzate da “una strana confusione di tempi e di cose”: è necessario distinguere e verificare i fatti accaduti per “disporli nell’ordine reale”, ordine che si sviluppa attorno al tema della negazione di realtà: pregiudizi, leggerezze, interessi convergono per forzare il linguaggio e portare alla negazione della realtà della peste.
 
Lodovico Settala, grande medico che cinquantatré anni prima aveva visto e combattuto la “peste di san Carlo”, già il 20 ottobre 1629 riferì al tribunale della sanità di Milano che vicino a Lecco “era scoppiato indubitabilmente il contagio”. Ciononostante, “non fu per questo presa veruna risoluzione”, ma al sopraggiungere altri “avvisi somiglianti” il tribunale della sanità mandò un commissario “a visitare i luoghi indicati”. Costui si fece accompagnare da un medico di Como e “Tutt’e due, «o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste»”; ma effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi o “de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni”. Ciò bastò a far sì che il tribunale della sanità “ne mettesse il cuore in pace”.
 
Però, altre notizie allarmanti arrivarono presto, e allora “furono spediti due delegati a vedere e a provvedere”: questi riferirono che il “numero de’ morti era spaventevole” e “trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre” [1629] prese subito misure drastiche, chiudendo subito “fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato”.
 
Già in questa fase iniziale sono presenti i germi della negazione di realtà, ma il realismo sembra prevalere: i delegati “se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso”, ma i medici presero con prontezza contromisure serie e rigorose. Arrivati a Milano il 14 novembre, i delegati diedero “ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto”, e andarono subito a riferire dal Governatore che, pur essendo molto rattristato della notizia, aveva “i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas”. Così “due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV […] come se non gli fosse stato parlato di nulla”. Questo “spregio”, osserva Manzoni, fu all’origine dei “disgusti d’ogni genere” verso il Governatore, Ambrogio Spinola, che morì pochi mesi dopo.
 
Nonostante resti “intero il biasimo” per il Governatore, c’è un aspetto che diminuisce “la maraviglia di quella sua condotta” e che “fa nascere un’altra e più forte maraviglia” circa la “condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo”. All’arrivo di notizie mediche così gravi come quelle sopra riportate, “chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato”.
 
Manzoni rileva qui il punto centrale della questione: la gente, la politica e i magistrati negano bellamente e senza ragioni la realtà della peste riconosciuta invece dagli esperti, tanto che “chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. Eccezione va fatta per la Chiesa, dal momento che il cardinal Federigo subito fece una lettera pastorale ai parroci imponendo di consegnare le cose infette: “e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità”.
 
La classe medica era divisa: “Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza”. Così, forse “per ostacoli frapposti da magistrati superiori”, la decisione di chiudere Milano fu presa “il 30 d’ottobre [1629], non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29 [novembre]. La peste era già entrata in Milano”.
 
La peste è realtà spaventosa e spaventevole e, osserva Manzoni, per negarla bastano ragioni contingenti e banali come “la penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo” per spiegare l’aumento di mortalità così che, poi, “chi buttasse là una parola del pericolo […] veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. Tuttavia, fu proprio quella negazione di realtà a favorire l’ingresso della peste in Milano.
Appurato questo, Manzoni studia come la “medesima miscredenza” o meglio la medesima “cecità e fissazione” abbia potuto mantenersi nel popolo, nella politica, nei magistrati e anche in molti medici, quali effetti ciò abbia prodotto.
 
Il primo passo è consistito nella ricerca del portatore della peste (il paziente zero), subito individuato in “un soldato italiano al servizio di Spagna”. Il tribunale della sanità ha immediatamente segregato “in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati”. Morto lui e chi l’aveva assistito ci si illuse, “che il contagio non vi si propagasse di più”.
 
Ciò fece dimenticare che quanto già “era stato disseminato […] non tardò a germogliare”, e fece sottovalutare il nuovo contagio che entrava in città “per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli”. Così, il male “andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630”. È vero che “di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, nè ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso”.
 
Qui giungiamo al secondo passo della negazione di realtà, quello cruciale e decisivo: in città c’erano chiari segnali di peste, il cui riconoscimento avrebbe ancora potuto bloccare l’epidemia, ma “molti medici […] avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste”. Grazie a nomi diversi, si nasconde e si nega la realtà. Questa mossa intellettuale ha un effetto disastroso e devastante che va esplicitato: il tribunale di sanità stava intervenendo in modo drastico per contrastare quell’“orribile flagello”, bruciando e sequestrando le case degli appestati, ma, per via di quei “nomi di malattie comuni” tra la gente s’era diffusa la voce che quelle misure “fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala […] che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi”.
 
Coloro che, prontamente, avevano riconosciuto la peste furono dichiarati “nemici della patria: pro patriae hostibus”, e il Settala fu oggetto di uno specifico preciso agguato. Parte di quell’odio, continua Manzoni, si riversava anche sugli “altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento”.
 
Attraverso questo secondo passo, il negazionismo favorì la diffusione e il radicamento della peste in Milano. “Ma sul finire del mese di marzo [1630], cominciarono, […] in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti […]. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto”.
 
Non potendo più negare l’evidenza della peste, si compie così un terzo passo consistente nel trovare nuovi nomi grazie ai quali riconoscere una parte di realtà per tenerne nascosto l’aspetto più importante, ossia “che il male s’attaccava per mezzo del contatto”. Per cercare di arginare tale immane tragedia, “i magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi […] della Sanità, a far eseguire i suoi editti”. Fu allestito un lazzaretto e furono chiamati a curarlo i cappuccini con a capo padre Felice Casati, che “prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza”. In sette mesi nel lazzaretto passarono cinquantamila persone, per cui, conclude Manzoni, “l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa”.
 
A primavera avanzata, “anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, […] e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute”. Anche Manzoni sottolinea come il fatto che la peste colpisca persone note e famose sia elemento che favorisce il riconoscimento della realtà. Al riguardo cita il Tadino: “Questi casi, […] occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia”. Si potrebbe dire che la qualità dei morti amplifica l’evidenza offerta dalla quantità e dal numero.
 
Neanche quest’aspetto, però, continua Manzoni, basta a far riconoscere la realtà com’è, perché a volte la “caparbietà convinta” trova ripieghi e espedienti per soddisfare il desiderio di rimanere “ferma e invitta, fino all’ultimo, contro la ragione e l’evidenza”. Coloro che si erano opposti “così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo”.
 
Sul piano intellettuale, si compie così un quarto passo per continuare in qualche modo a negare la realtà: la peste è ormai innegabile, ma si dice che la sua diffusione è dovuta non a “mezzi naturali” ma a “qualche altra causa” con la disponibilità “a menar buona qualunque ne venisse in campo”. Manzoni osserva che “per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe”. Ipotesi subito avvalorata dal fatto “che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi”. Allora a quel dispaccio “non ci si era badato più che tanto”. Ora, “però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell’avviso potè servir di conferma al sospetto indeterminato d’una frode scellerata; potè anche essere la prima occasione di farlo nascere”.
 
Due fatti trasformarono di colpo quel “sospetto indeterminato d’un attentato possibile” in “certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale”, fatti cui Manzoni dedica attenzione sia per l’interesse teorico sotteso (se la peste fosse frutto di untori), sia per la scoperta di una inedita lettera ufficiale del tribunale della sanità al Governatore che chiarisce la realtà al riguardo. Il primo fatto, “di cieca e indisciplinata paura”, capitò la sera del 17 maggio quando “era parso di vedere” che alcuni avessero unto “un assito che serviva a dividere gli spazi a’ due sessi” nel duomo di Milano. Subito furono portati fuori “l’assito e una quantità di panche”, arrivò “Il presidente della Sanità” e altri quattro funzionari che però non trovarono “nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico”: nella lettera ufficiale citata i sanitari conclusero, “più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno”, che “bastava dar una lavata all’assito”. Nonostante questo “quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine”, e si disse che all’interno tutto era stato unto, “e fin le corde delle campane”: fatto riportato in tutte le cronache, ma non nella lettera ufficiale da cui sono tratte le parole in corsivo sopra riportate.
 
L’altro fatto, “nuovo e più strano”, accadde il mattino seguente, quando i cittadini “in ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne”. Non si sa se “sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione”, ma della cosa ne parla il Ripamonti, la lettera citata che dice d’aver fatto esperimenti coi cani, per concludere “che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato”; e altre cronache contemporanee raccontano essere stata “opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria”. In seguito, però, l’idea dell’unzione si è ingigantita al punto da portare a “un celebre delirio”, quello degli untori appunto. Manzoni studia il problema di come tale delirio sia sorto, “perché, negli errori e massime negli errori di molti” la cosa più interessante è “la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle”.
 
Dopo i due fatti citati, “la città già agitata ne fu sottosopra”: la gente si mise a bruciare le parti unte, e a portare alla giustizia i forestieri sospettati di essere untori, che furono interrogati, e “non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere”. Non avendo trovato alcun colpevole, nella già citata lettera ufficiale datata 21 maggio, ma scritta il 19, il tribunale della sanità afferma che sarebbe stata emessa una grida perché “Ad ogni modo non parendoci conueniente, […] che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo”. Tuttavia, nella grida pubblicata non si fa “però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura”: non si dice cioè che non c’erano untori di sorta e che si emanava la grida solo “per consolatione e quiete di questo Popolo”. Silenzio, conclude Manzoni, che rivela “una preoccupazione furiosa nel popolo” che è stata assecondata, pur essendo ciò pericoloso.
 
Questo omertoso silenzio nella grida, consentì la conclusione del quarto passo implicato dalla “caparbietà convinta” nella negazione di realtà: la peste c’è ma è dovuta non a causa naturale (il contagio) ma all’untore. Infatti, “Mentre il tribunale cercava [le cause possibili della peste], molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato” e c’era chi credeva “esser quella un’unzione velenosa”, e chi “fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza”, e via dicendo con le ipotesi più bizzarre. “C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse”, perché “si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali” se fosse stata “vera peste […] tutti sarebbero morti”.
 
Per fugare “ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi”. In una delle feste della Pentecoste, “nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi” per ordine della Sanità furono fatti passare i cadaveri di una famiglia intera “sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla”.
 
Assodata con certezza la realtà della peste, Manzoni chiude con una proposizione giustamente diventata celebre che compendia i quattro passi sopra illustrati circa la negazione di realtà: “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.
 
E subito continua: “Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte [idee e parole] hanno fatto un simil corso”, anche se non sono molte quelle che hanno avuto tanta importanza. Tuttavia, conclude che “tanto nelle cose piccole, come nelle grandi” si potrebbe evitare quel tragitto “così lungo e così storto” assumendo il metodo “d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire”.
 
Battuta quest’ultima, dagli studiosi manzioniani (per tutti cfr. C.C. Secchi) che di solito viene letta come un giudizio morale generale sulla fragilità umana, ma nella analisi qui proposta va vista come un invito al rigore e alla precisione terminologica: siamo un po’ da compatire perché non riusciamo a essere rigorosi nel linguaggio, sviamo coi termini e così neghiamo la realtà (sgradevole e difficile da accettare).

L’analisi del Manzoni circa le modalità con cui noi umani procediamo alla negazione di realtà e l’invito a controllare il linguaggio restano quanto mai validi anche oggi, in tempo di Coronavirus. Il Covid-19 non è affatto la peste, ma ha comunque un tasso di complicanze e di mortalità più elevato delle normali patologie (influenza, ecc.), per cui nel contesto consolidato di una grande attenzione ormai acquisita circa la salute, la diffusione del Coronavirus suscita un’emergenza sanitaria di carattere planetario.
 
L’orizzonte è cambiato e non riguarda più solo Milano come avamposto dell’Italia, ma coinvolge l’intero globo. In questo senso l’11 marzo 2020 l’OMS ha riconosciuto e dichiarato la pandemia, ma solo pochi giorni prima l’epidemia, la sua reale entità e magnitudo, sono state oggetto di vivaci dibattiti, che non sono ancora del tutto sopiti né in Italia né, soprattutto, nel mondo. Ci sono paesi che, forse, non hanno ancora ben capito il pericolo insito nella diffusione del Coronavirus, e anche da noi non sono mancati coloro che hanno negato il pericolo del Covid-19, affermando che fosse poco più seria di una normale influenza.
 
Restando in Italia, la pandemia solleva enormi problemi a vari livelli: sanitario, economico-sociale, psicologico, e via dicendo. Limitando l’attenzione al piano sanitario è encomiabile l’impegno profuso per trasformare in poche settimane le strutture sanitarie così da renderle idonee alla cura del Covid-19. Gli sforzi fatti hanno dato risultati notevolissimi, e alleggerito molti carichi. Ma se la diffusione del virus continua ai ritmi attuali, tali sforzi si riveleranno insufficienti, perché l’onda d’urto dell’emergenza sanitaria sarà travolgente.
 
Mossi da un vivido senso della realtà e da un ancor più robusto senso morale, non appena hanno avvertito con chiarezza la situazione di tragica emergenza causata dall’epidemia Covid-19, il 6 febbraio 2020 i rianimatori italiani hanno pubblicato le Raccomandazioni Siaarti per stabilire come selezionare i pazienti da ammettere alle cure intensive nella nuova realtà al fine di contenere il danno. La selezione in oggetto è pratica che non piace a nessuno, è ripugnante e certamente ne faremmo a meno. Ma a volte, purtroppo, va fatta, e per farla è bene avere criteri etici generali che indichino il modo “migliore possibile” o almeno “il meno peggio”. È merito dei rianimatori Siaarti aver riconosciuto l’emergenza e pensato con tempestività e prontezza a queste Raccomandazioni, e di averle presentate al pubblico con trasparenza e senza infingimenti: come al tempo della peste descritta dal Manzoni, alcuni medici hanno subito capito cosa stesse accadendo e preso le opportune misure.
 
Come qualsiasi altra impresa umana, anche le Raccomandazioni Siaarti sono perfettibili, e può darsi che qualcuna di esse sia da modificare, correggere, migliorare. A titolo esemplificativo, alcuni rilevano che, a completamento di quanto già previsto dalla Raccomandazione 5, andrebbe più fortemente sottolineato il ruolo del consenso informato dato dall’interessato. Si osserva che, se debitamente informate e coinvolte, alcune persone potrebbero preferire, all’intervento invasivo e pesante della terapia invasiva, la pianificazione delle cure con terapie palliative e, eventualmente, sedazione terminale: una scelta che merita attenzione e rispetto, e che va considerata. Altri eventuali suggerimenti saranno esaminati con cura.
 
Purtroppo, però, le Raccomandazioni Siaarti non sono state accolte bene, e qualche volta sono state rifiutate in toto. In modo analogo a quanto descritto dal Manzoni, c’è stata una generale alzata di scudi per negare la realtà (sgradevole) presentata dalle Raccomandazioni. Le modalità della negazione sono state diverse: in alcune è avvenuto in modo diretto giocando sulle pieghe delle parole, in altre “per isbieco” introducendo un qualche aggettivo.
 
Così si è detto che non ci si deve trovare di fronte a una realtà come quella prospettata dai rianimatori; che la selezione non è proponibile perché contraria all’eguaglianza costituzionale; che le Raccomandazioni vanno rifiutate perché segnano un ritorno al vecchio paternalismo che trascura l’autonomia del singolo; o invece, all’opposto, perché propongono criteri pubblici generali che vanno contro la più affidabile scelta in “scienza e coscienza” del singolo medico virtuoso; che le Raccomandazioni non sono accettabili perché la decisione di scegliere chi ammettere alle cure non spetta ai rianimatori ma, se mai, alla società tutta (senza però dire come ciò avvenga); o perché se fossero accolte in tempo di emergenza poi non sarebbero più abbandonate; oppure perché inopportuna e sbagliata è stata la tempistica della loro presentazione; e via dicendo.
 
A fronte dell’evidenza dell’inevitabilità della selezione, chi resta fermo nella “caparbietà convinta”, oggi come allora, si è messo alla ricerca di qualche “altra causa” per spiegare la realtà scomoda fino a poco prima negata: al tempo descritto dal Manzoni “nelle idee e nelle tradizioni comuni” a cui attingere “ce n’era una in pronto” che rimandava alle “arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste”, cioè agli untori; oggi, invece, nel serbatoio comune a cui attingere di idee ce ne sono varie, la prima delle quali rimanda a qualche forma di complotto.
 
Il virus sarebbe stato creato in laboratorio e rilasciato poi o per mettere in difficoltà economiche l’Occidente, oppure, all’opposto, perché in Occidente qualcuno intendeva trarre ingenti profitti dal crollo dei mercati. Non manca né il gruppo ristretto (esiguo, a dire il vero) di chi come “altra causa” del virus mette in campo l’idea del “castigo divino” per le tante nefandezze presenti nelle società contemporanee; né il gruppo un po’ più ampio di chi secolarizza quella tesi, e osserva che quel castigo oggi prende corpo nel ritorno di ideologie nefaste come il darwinismo sociale, lo scientismo, l’economicismo, l’utilitarismo o altri-ismi simili: concetti generici che però non richiedono ulteriori precisazioni perché, poi, è la paura (assieme a altri fattori) a fare quanto manca per attaccare alla realtà in questione “un’altra idea […], la quale – come dice Manzoni – altera e confonde l’idea espressa dalla parola [in discussione] che non si può più mandare indietro”.
 
La lezione di Manzoni ci ha consentito di vedere meglio come avvenga il processo di negazione di realtà (sgradevole e non facile da accettare: la peste o la selezione). L’auspicio è che, almeno oggi, si evitino gli errori più grossolani e che, come consigliava Manzoni, si segua “il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”. Attenzione che va posta sempre e per ogni parola, ma soprattutto quando si mette in campo l’uguaglianza, dal momento che, come ho mostrato in un contributo precedente (QS, 13 marzo 2020), di quella nozione si può parlare in accezioni diverse.
 
Maurizio Mori
Ordinario di Filosofia Morale e Bioetica, Università degli Studi di Torino
Presidente Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica


26 marzo 2020
© Riproduzione riservata


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