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La sanità è al collasso? Forse ancora no ma il Paese sì e alla fine il rischio è che crolli tutto

di Cesare Fassari

A dire che il nostro Ssn sia al capolinea sono in molti. Gli ultimi due la Fondazione Gimbe e il tandem Censis-Rbm che, al di là delle opposte ricette, denunciano entrambi una situazione di crisi irreversibile. Ma le cose stanno veramente così? Penso di no e anzi la sanità sta meglio di molti altri comparti. Ma il tema c'è e bisogna affrontarlo seriamente senza ricadere nelle solite querelle, come quella sulla clausola di salvaguardia del Patto per la salute

14 GIU - Il Ssn è veramente a un passo dal baratro? Secondo gli ultimi due rapporti sulla sanità, provenienti uno da Gimbe e uno dal Censis-Rbm, la risposta è sì.
 
Le ricette per “salvare” dal naufragio il Ssn sono opposte – Gimbe chiede più risorse pubbliche e teme una privatizzazione della sanità mentre Censis-Rbm spinge proprio sul secondo pilastro privato per “salvare” il Ssn – ma ambedue sono convinti che, se non si farà qualcosa, la nostra sanità andrà a picco molto presto.
 
In questo scenario si colloca lo psico dramma (che abbiamo già vissuto nel 2015) sul presunto “tradimento” degli impegni di spesa per la sanità da parte del Governo che si verificherebbe per colpa di una clausola di salvaguardia sugli equilibri di finanza pubblica inserita nella bozza del nuovo Patto per la Salute nella parte relativa alla programmazione delle risorse del fondo sanitario 2020-2021.
 
Cosa dice questa clausola? All’articolo 1 del testo si legge che: “Al fine di garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2019-2021, il livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo Stato: 
- è confermato in 114.439.000.000 euro per l'anno 2019; 
- è fissato in 116.439.000.000 euro per l'anno 2020 e in 117.939.000.000 euro per l'anno 2021, salvo eventuali modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico, nel qual caso si rimanda a quanto previsto all'articolo XX comma 2 del presente documento”.
 
Cosa c’è di così scandaloso e addirittura “anticostituzionale” come qualche commentatore  e lo stesso ministro Giulia Grillo hanno rilevato (non Tonino Aceti che, pur citando la famosa sentenza 275/2016 della Consulta sul primato dei diritti incomprimibili rispetto a questioni di bilancio, si è limitato ad una analisi politica)?
 
Secondo me nulla. Basta leggere quanto scritto nella riforma sanitaria dell'allora ministro Rosi Bindi (Dlgs 229 del 1999) per capire che la necessità di contemperare il finanziamento del Ssn agli equilibri della finanza pubblica è un principio cardine del nostro sistema sanitario, da ben prima della famosa riforma costituzionale sull’equilibrio di bilancio, tanto criticata e richiamata come esempio negativo di predominanza della finanza sui bisogni e i diritti delle persone.
 
Al comma 3 dell’articolo 1 del 229 leggiamo infatti che: “L'individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza assicurati dal Servizio sanitario  nazionale (…) è effettuata contestualmente all'individuazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario  nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l'intero sistema di finanza pubblica nel Documento di programmazione economico finanziaria”.
 
Quindi la necessità/obbligo per il legislatore e il Governo di attenersi sempre alle “compatibilità della finanza pubblica” è netta e non si vede perché questa volta non se ne dovrebbe tener conto venendo meno a un dettato legislativo molto chiaro finalizzato, allora come oggi, a porre la scelta del quantum da destinare alla tutela della salute tra gli ambiti di decisione e programmazione politica.
 
In questo senso fa bene Giulia Grillo a porre la questione in termini politici “se tagliate la sanità me ne vado”, sbaglia quando parla di incostituzionalità perché il terreno dello scontro non è giurisprudenziale ma politico e i suoi interlocutori non sono i giudici della Corte ma il suo collega del Mef e il suo presidente del Consiglio.
 
La battaglia di Grillo, come di quasi tutti i suoi predecessori, sarà quella di convincere il suo Governo del fatto che mettere più soldi sulla sanità sia una priorità politica e un bene per il Paese, anche a costo di sacrificare altre poste di bilancio.
 
E sappiamo tutti che non sarà facile, visto il quadro economico e le difficoltà di far quadrare i conti nella prossima manovra di Bilancio che si prospetta molto dura.
 
Per questo, anche se ovviamente speriamo di no, la possibilità che anche stavolta il Governo sia costretto a un passo indietro rispetto alle previsioni di finanziamento per la sanità è molto realistica ed è probabile che ci si dovrà accontentare di qualcosa in meno di quanto scritto nel Patto.
 
Se ciò dovesse accadere, ci avvicineremo ancora di più al baratro come temono i nostri osservatori?
 
Intanto diciamo che a un passo dal baratro, purtroppo, non c’è solo la sanità (che anzi, a mio parere, se la cava molto meglio di altri comparti).
 
Alcuni esempi?... i ponti crollano e non si ricostruiscono, le strade sono piene di buche (non solo a Roma ma dappertutto) e non si rattoppano, le ferrovie (tolta l’alta velocità) sono quelle del dopoguerra, le scuole cadono a pezzi e i genitori fanno supplenza portando penne e carta igienica, un giovane su tre non trova lavoro e molti lavoratori di mezza età lo perdono, siamo permeati dal malaffare organizzato ben oltre quanto si vuol far credere, il sistema Paese nel suo complesso non riesce ancora a riprendersi dalla crisi del 2008 e non cresce e infine (mi fermo qui per pietà di noi stessi) dobbiamo fare i conti con quasi 110 miliardi l’anno di evasione fiscale e contributiva (relazione della Commissione del Mef del 2018), una cifra quasi pari alla spesa sanitaria nazionale.
 
Di fronte a questo scenario la realtà del nostro Ssn assume tinte molto meno fosche di quelle disegnate dai due ultimi rapporti Gimbe e Censis-Rbm.
 
Vuol dire che va tutto bene? Non scherziamo, ovvio che no. Ma il sistema salute non è al default, la saracinesca di ospedali e ambulatori si alza ancora ogni giorno e ogni giorno chi ci lavora dà il suo meglio, con soddisfazione della stragrande maggioranza dei cittadini assistiti.
 
Poi i problemi ci sono tutti, e alcuni, i più evidenti e attuali, li avevo già posti in forma di sette domande alla politica (attendiamo però ancora quelle risposte).
 
Ma il sistema non è sul baratro (e attenti alla sindrome del lupo al lupo), e non è vero che senza un secondo pilastro (Censis-Rbm) morirà, né è vero che per farlo rimettere in pista a pieno regime sono indispensabili decine di miliardi di euro in più rispetto alle attuali previsioni (Gimbe).
 
Intendiamoci, una riforma del sistema dei fondi integrativi con una decisione finale chiara sulla loro funzione e il loro regime fiscale va fatta ma da qui ad auspicare un sostanziale ritorno a un sistema para-mutualistico ce ne passa… no grazie (e lo dico senza alcun annebbiamento ideologico ma perché sono convinto che il Ssn universale resti la formula migliore).
 
La ricetta Gimbe si basa invece sostanzialmente su 4 target da attuare da qui al 2025: recupero di risorse da sprechi e inefficienze (36 miliardi); maggiore concorso del finanziamento pubblico (+ 37,6 miliardi rispetto alle stime attuali); ridefinizione (al ribasso) dei Lea e riduzione delle agevolazioni fiscali per sanità privata e mutualistica.
 
La sostanza del ragionamento di Gimbe (al di là della, temo e spero insieme, sovrastima degli sprechi e delle inefficienze da recuperare) è che comunque servono più soldi alla sanità pubblica per riguadagnare i mancati aumenti e i tagli degli anni passati.
 
A Gimbe dico che tutti vorrebbero più risorse ma soldi al momento non ce ne sono. Quindi occorre essere realisti e i conti vanno fatti prima di tutto con quello che abbiamo.
 
E quello che abbiamo è un quadro della sanità dove, a sostanziale parità di finanziamento pubblico (quota capitaria ponderata al netto di piccole difformità sulla capacità regionale di produrre entrate proprie da ticket e intramoenia, con un gap tra la regione più “ricca” e quella più “povera di soli 93 euro procapite fonte Crea Sanità 2018), ci sono regioni dove la sanità funziona e altre no.
 
E allora? Il nostro Ivan Cavicchi parla ormai da anni della necessità di una “Quarta riforma” che riveda profondamente assetti e “filosofia” del sistema, a prescindere dal quadro finanziario.
 
Una scommessa difficile quella di Cavicchi della quale, senza entrare nel merito delle singole argomentazioni, ho però sempre condiviso l’approccio complessivo che per me si riduce in sostanza a un appello corale a rimboccarsi le maniche.
 
Come Paese, come istituzioni (Governo e Parlamento in primis) e come singoli cittadini nell’ambito dei propri ruoli e competenze, per riconquistare la voglia di far girare le cose in un certo modo, anche in sanità.
 
Perché l’Italia che amo, e che in parte ho avuto la fortuna di conoscere, non è quella dove i genitori portano a scuola penne e carta igienica e non è quella dove i ponti crollano ma quella dove i genitori portano a scuola i dolci per le feste di compleanno e dove i ponti si costruiscono alti, forti e anche belli.
 
Cesare Fassari

14 giugno 2019
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