Il declino inarrestabile della professione medica
di Roberto Polillo
Oggi il lavoro dei medici viene considerato un disvalore, un costo da abbattere, una spesa da comprimere attraverso operazioni di sostituzione con personale meno qualificato per formazione ed esperienza professionale. Una prospettiva che deve essere contrastata da tutti coloro che si sono battuti perché la sanità divenisse un servizio di utilità pubblica e non un mercato di beni da consumare
11 GEN - I medici stanno vivendo una dei momenti più drammatici della loro storia millenaria. La loro marginalizzazione nel campo istituzionale, dove non rivestono più alcun ruolo di rilievo, si è materializzata nell’arco di soli pochi anni con il concorso o il silenzio degli altri attori istituzionali: le forze politiche e i Ministri della Salute delle ultime legislature che nulla hanno fatto per ridare ossigeno alla categoria, gli organi di rappresentanza con la FNOMCEO in prima fila impegnati solo a mantenere il loro status privilegiato e il controllo sui gioielli di famiglia (EMPAM), i sindacati medici autonomi e confederali (non più capaci di tessere alleanze con il mondo politico i primi, di risolvere i conflitti intestini tra i diversi profili professionali i secondi) il complesso industriale-farmaceutico privato e i fondi assicurativi interessati a creare un nuovo mercato ad accesso diretto da parte degli utenti.
Una strategia, inizialmente giustificata dalle ristrettezze del periodo della grande crisi degli anni 2000, e che successivamente ha puntato al raggiungimento di precisi obiettivi non più dipendenti dal ciclo economico-finanziario del paese: lo smantellamento del SSN universalistico con l’introduzione del secondo pilastro assicurativo (per creare valore aggiunto a un settore, sottodimensionato ma molto promettente e potenzialmente in grado di generare un nuovo patto consociativo tra industria e forza sociali); la sostituzione dei medici con altri professionisti a costo unitario più basso e per i quali è ancora possibile lo scambio tra valore economico (salario) e valore simbolico (ampliamento delle competenze); la disintermediazione con l’attribuzione al farmacista o al cittadino stesso del ruolo di committente tra industria farmaceutica e paziente, saltando , laddove possibile il gatekeeper istituzionale, il medico tradizionalmente inteso.
La fine del modello paternalistico
Per venticinque secoli il rapporto medico paziente è stato quello codificato dalla scuola ippocratica e adattato alla struttura sociale della società industriale da Talcott Parsons a metà degli anni ‘60
La professione medica ha rappresentato per Talcott Parsons la semplificazione della struttura sociale (a tale proposito vedi G. Vicarelli in “Oltre il coinvolgimento” Il Mulino 2016) dove il ruolo del paziente (sick role) viene definito nei suoi attributi caratteristici di deviazione dalla norma rispetto al corretto e ordinario funzionamento della società. Il malato in tale modello viene collocato in un area di de-responsabilizzazione transitoria rispetto ai doveri che la società attribuisce ai propri membri a condizione che accetti di affidarsi, sulla base ovviamente d un rapporto di fiducia, a un medico in un rapporto di cooperazione finalizzato al superamento della contingenza e alla
restitutio della funzionalità perduta. Il medico diventa l’attore indiscusso del processo di guarigione in funzione della incolmabile asimmetria tecnico scientifica esistente tra i due soggetti. Il paziente infatti per Parsons è convinto (a torto) di sapere molte più cose di quelle che è effettivamente in grado di padroneggiare e quindi deve necessariamente affidarsi a un professionista che, essendo adeguatamente formato, ha la competenza e l’obbligo morale di perseguire l’obiettivo della guarigione
Il rapporto medico-paziente ha dunque una connotazione di tipo paternalistica in cui il medico tratta il paziente come un professore tratterebbe un alunno o un genitore un figlio.
Con gli anni ’70 il modello Parsoniano viene sottoposto a critica crescente secondo diverse direttive di marcia che come tratto comune hanno il giudizio di come la concettualizzazione del sick role sia una enfatizzazione di conformismo e passività. In tale nuovo contesto culturale fortemente
anti establishement nel rapporto medico-paziente si rende possibile come nuova dimensione di analisi quella del conflitto. Un conflitto che Eliot Freidson intravede tutte le volte che nella società si strutturano ruoli in cui gli attori sono portatori di capitale culturale e sociale differente e che lo porta a formulare il concetto di “dominanza medica” inscrivendo il medico (come anche quello di tutti gli altri “professionisti” rispetto ai “profani”) nel ruolo di rappresentante dei valori dominanti della società e del suo ordine costituito. Il rapporto medico paziente acquisisce una nuova connotazione conflittuale in quanto al suo interno si riflettono tutti quei condizionamenti sociali che dipendono dalle reti di appartenenza (o capitale sociale) che gli attori coinvolti nel rapporto si portano dietro: sia il medico sia il paziente immettono nel confronto il peso della propria cultura, dei propri valori e dei propri orientamenti ed entrambi (ognuno con i mezzi di cui dispone), cercano di controllare e di dominare la difficoltà dell’incontro ( Angela Palmieri)
Una seconda linea di attacco, di livello micro interazionale, viene invece elaborata da Irvin Goffman, il più importante sociologo americano nel suo studio sull’ospedale psichiatrico St. Elizabeths, Washington (D.C.), (un'istituzione federale di circa settemila internati, dove convergevano tre quarti dei pazienti del distretto della Columbia), assunta come idealtipo delle istituzioni totali.
Gofmann analizzandone il ruolo esercitato dallo staff medico-sanitario svela il modo con cui questo detiene una posizione capace di produrre una «versione ufficiale della realtà» e come anche l’uso dei farmaci e dell’elettroshock non siano mezzi terapeutici
“neutri” ma siano
“strumenti politici” per riaffermare tale relazione di potere. Ecco il racconto nelle sue parole (Asylum):
"L'uso dell'elettroshock, su raccomandazione del sorvegliante, come mezzo per costringere gli internati alla disciplina, e per calmare quelli che non ascoltano minacce, offre un esempio, in qualche modo più moderato ma più largamente diffuso, del medesimo processo. In tutti questi casi, l'attenzione medica è presentata al paziente e ai suoi parenti come un servizio individuale, ma ciò che viene servita qui è l'istituzione, dato che l'azione specifica si inserisce in ciò che ridurrà i problemi della conduzione amministrativa. In breve, sotto l'apparenza di un modello di servizio medico, si può trovare talvolta la pratica di una manutenzione medica"
L’operatore sociale e il medico da un lato e il paziente dall’altro nella visione di Goffman sono impegnati entrambi in una lotta in cui ciascuno degli attori cerca di conservare degli spazi in cui potere riaffermare, Il medico, la centralità del “Sé” e la sua sacralità, il paziente, condizioni minime e residuali di rispetto: spazi di autonomia strappati al controllo della struttura con strategie di sopravvivenza che Goffman definisce nei termini di “lavorarsi l’istituzione”
Ancora in una diversa linea di attacco, e questa volta alla luce del conflitto di classe della società capitalistica, viene condotta da Giulio Maccacaro, fondatore nel 1976 dell’associazione Medicina democratica e dagli psichiatri che si riconoscono nelle idee di Franco Basaglia e che lottano insieme agli altri operatori per la de-istituzionalizzazione dei “malati di mente” e la chiusura dei manicomi
I medici protagonisti del cambiamento
L’ipotesi di fondo di Maccacaro è che la medicina e, in generale, la scienza, fossero un modo del potere; come tale, la medicina «è abilitata a dettare statuti, tracciare limiti, codificare eventi, attribuire significati: è cioè capace, a un tempo, di legge e di giudizio, ovvero di assolutezza» (G. A. Maccacaro, presentazione della collana editoriale
Medicina e potere, 1972). Medicina democratica, come sostenuto Maccacaro nel convegno costitutivo del movimento, tenutosi a Bologna nel maggio 1976, si poneva in continuità con le lotte studentesche e operaie della fine degli anni Sessanta e dell’inizio del decennio successivo.
Della salute privilegiava la dimensione collettiva, rispetto a quella individuale; la intendeva non come somma di benesseri individuali né come individuali riscatti dalla malattia, ma come una condizione che nasce dall’emergere di gruppi omogenei in grado di validare le condizioni di benessere e malessere e dalla partecipazione diretta dei gruppi di lavoratori esposti ai fattori di nocività presenti nella fabbrica e nella sua estensione territoriale. Quale nemico della partecipazione era individuata in primo luogo l’autorità medica sotto forma del diritto a un sapere separato, inaccessibile ai dati di fatto causati dai fattori di nocività e che si traduceva nell’esercizio di un insindacabile potere su un uomo oggettivato e astorico.
Sulla stessa tonalità riflessiva si muove la speculazione di Franco Basaglia che nel ricordare la sua esperienza di direttore dell’ospedale di Gorizia così analizza il rapporto tra il paziente e la struttura responsabile della cura: “
...un'istituzione che intende essere terapeutica deve diventare una comunità che si fonda sulla interazione preriflessiva di tutti i suoi membri, dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo o di chi dà con chi riceve; dove il malato non sia l'ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte: dove tutti i membri di una comunità possono, attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni, ricostruire il proprio corpo proprio.”
Nelle posizioni di Giulio Maccacaro e di Franco Basaglia il rapporto medico/paziente viene dialettizzato e ricondotto in buona sostanza alla diarchia
servo/padrone che Hegel nella fenomenologia dello spirito considerava il primo stadio nello sviluppo e nella storia dello spirito umano. Un rapporto conflittuale tra due autocoscienze (nella definizione utilizzata da Hegel) che è una 'lotta per il riconoscimento', dove ciascuna figura tende ad avere lameglio sull'altra. E dove viene a capovolgersi, grazie al lavoro, il rapporto di servo/signore, paziente/medico tradizionale secondo una dialettica che si dispiega in diversi passaggi: dalla condizione di subalternità del servo come strumento con cui operare sulle cose per conto del signore a quello di soggetto che attraverso nel lavoro ( e la malattia) acquista consapevolezza di sé, supera lo stadio della coscienza naturale ed infine conquista un orizzonte superiore di oggettività, di libertà.
Franco Basaglia inoltre ribalta, in continuità col pensiero di Giulio Maccacaro, il rapporto teoria-prassi ponendo l’accento sulla necessità che la medicina abbandoni il suo astrattismo teorico finalizzato al mantenimento del conformismo intellettuale:
“Noi facciamo della pratica, prima della pratica e poi della teoria. Non facciamo prima della teoria e poi della pratica perché questo sarebbe un cammino molto più reazionario di quanto voi non possiate pensare; la teoria è l'a priori
scientifico: del vecchio pensiero scientifico. Questo ci è stato molto rimproverato. Non mi sono difeso, ho accettato il rischio dell'empirìa. Non avessi accettato questo rischio avrei riciclato inevitabilmente la teoria antica, quella dei testi e dei manuali da cui sono venuto. Avrei soddisfatto una forma di narcisismo intellettuale, avrei tradotto le nuove esperienze dentro un codice e un linguaggio che sarebbe rimasto lo stesso.”
Dalla stagione delle grandi riforme al nuovo paradigma neo liberista
La rottura epistemica determinata dalla stagione delle lotte per il diritto alla salute e la de-istituzionalizzazione impone l’affermazione di una logica istituzionale basata sulla valorizzazione del cittadino/lavoraotre e delle diverse soggettività. Il 1978 diventa l’anno delle grandi riforme e il nostro paese esce finalmente dall’inerzia dei decenni successivi al crollo del fascismo e alla triste parentesi della 2° guerra mondiale in cui la politica si era caratterizzata per la pigrizia legislativa e per il suo attardarsi in una sorta di piccole ricuciture di un sistema smagliato.
Tre leggi in rapida sequenza trasformano il panorama italiano:
· L. 13 maggio 1978, n. 180. Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori
· L. 22 maggio 1978 n. 194. Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza
· L. 23 dicembre 1978, n. 833. Istituzione del servizio sanitario nazionale
In pochi anni tuttavia quella stagione di grandi lotte di massa esaurisce la sua forza propulsiva. L’operaismo si spegne nella dolorosa consapevolezza che l’antagonismo di classe non porterà
escathon e l’ ”autonomia del politico” diventa la sola dimensione possibile dell’agire collettivo.
Il mutato ciclo economico e lo sgretolarsi del vecchio mondo ordinato in blocchi crea le condizioni per un nuovo dispositivo concettuale; la liberalizzazione di mercati e la nuova globalizzazione rende desueti gli istituti basati sulla partecipazione
collettiva di utenti/cittadini e rende egemone un paradigma basato sulla
individuale libertà di scelta e sulla sacralizzazione del consumatore/cliente.
Ha inizio la grande mistificazione della aziendalizzazione della sanità. L’introduzione nella gestione delle strutture sanitarie degli strumenti tipici dell’impresa diventa la parola d’ordine, ripetuta fino all’ossessione per mettere a riparo gli sgangherati conti pubblici
Impresa risultata vana perché le regioni continuano ad accumulare disavanzi mantenendo inalterato il tradizionale gradiente Nord Sud (efficienza/inefficienza) che già
Putnam aveva fatto oggetto delle sua speculazione evidenziandone il carattere strutturale e storicamente stabile della nostra società.
Una peculiarità del sistema Italia che il processo di aziendalizzazione non ha minimamente scalfito dimostrando il carattere strumentale e mimetico della maggior parte dei modelli di pianificazione e organizzazione aziendale di stampo bocconiano che la aziende delle regioni “canaglie” ( e le stesse regioni) hanno adottato solo formalmente per ottenere legittimità senza introdurre alcun sostanziale cambiamento gestionale di efficientizzazione del sistema
La rivincita degli amministrativi
L’adozione degli strumenti tipici del settore privato e l’enfatizzazione della logiche gestionali creano le condizioni per il riscatto professionale degli amministrativi che da semplici funzionari esecutivi diventano menager in grado di assumere decisioni di programmazione e pianificazione strategica. Si ribalta così la tradizionale condizione di subalternità nei confronti dei medici che diventano di fatto dipendenti dalle decisioni altrui per quanto riguarda organizzazione dei servizi, valutazione dei risultati e allocazione delle risorse. La beata età dell’oro in cui il primario era il protagonista assoluto della vita della sua corte volge rapidamente al termine e i medici si trovano nella condizione di mobilitare le risorse residue per mantenere almeno un ruolo di comprimari.
Il ritiro della professione e il piatto di lenticchie degli incarichi gestionali
La scelta che la categoria medica assume a cavallo degli anni 2000 è quella di includere tra le proprie competenze le attività di gestione che gli amministrativi demandano loro. I risultati si dimostrano tuttavia largamente inferiori alle attese. La gestione si dimostra un arma spuntata nel migliorare l’organizzazione aziendale e risanare i bilanci delle aziende sanitarie.
A metà degli anni 2000 ci si accorge che la performance del sistema è decisamente peggiorata e la correzione dei crescenti disavanzi delle aziende sanitarie e delle regioni potrà avvenire solo a patto di una cessione di autonomia degli enti territoriali nei confronti dello stato centrale. Inizia il lungo periodo di commissariamento delle regioni inadempienti che, per ottenere il ripiano dei disavanzi, dovranno concordare con il MEF la riorganizzazione (lacrime e sangue) dei loro servizi regionali. Il grande bluff dell’aziendalizzazione è ormai evidente e con amarezza i medici possono constatare con mano come lo shift competenze professionali/ incarichi gestionali sia magro come il piatto di lenticchie che Esaù ottenne da Giacobbe in cambio della primogenitura. Il medico perde progressivamente autorevolezza professionale senza acquisire potere negoziale nella programmazione delle proprie attività, mentre l’antica arte della cura si trasforma in medicina totalmente amministrata e sottoposta a vincoli che ben poco hanno a che fare con il miglioramento della qualità
Il cittadino utente multitasking
Ben diversa è invece la “carriera politica” del cittadino che da soggetto totalmente subordinato al medico acquisisce un potere negoziale che, seppure strumentale a un nuovo equilibrio tra i diversi soggetti istituzionali, è pur sempre l’uscita dal tunnel buio della passività. Una luce che si accende per il soggetto individuale (il cittadino/consumatorie) ma che si spegne forse definitivamente per quel soggetto collettivo ( i lavoratori esposti ai fattori di nocività dei luoghi di lavoro, i cittadini soffocati dalle polveri sottili e dai rifiuti tossici delle discariche abusive) che era il riferimento concettuale per quella rivoluzione culturale avviata da Maccacaro e Basaglia.
Il paziente dunque esce dall’anomia per il convergere di diverse linee di tendenza e necessità della società post-industriale saturate di buone intenzioni ma anche di grandi opportunità di profitto per un mercato fortemente modificato rispetto a quello della modernità
Il sociologo francese Francois Vedelago ha così delineato le diverse dimensioni che si sono configurate nel tempo per raggiungere un vero stato e ruolo sociale da parte di quello che definisce l’utente –attore. Nella sua costruzione le “figure” che ora indicheremo rappresentano le possibilità di ruolo che l’utente-attore può esercitare nei diversi contesti sanitari attraverso l’ibridazione di saperi diversi e in funzione del mutevole grado di permeabilità della politica a una effettiva partecipazione dell’utente-attore.
Il primo step di possibilità è quello dell’utente-beneficiario che ha come principio di attivazione la relazione contrattuale con le istituzioni; segue l’utente-paziente in veste di promotore della propria salute e del proprio dossier; l’utente-cliente è il negoziatore delle prestazioni (in un paniere tuttavia artatamente costruito); l’utente di comunità è l’attivatore di relazioni di prossimità; l’utente-cittadino si pone in rapporto all’interesse collettivo sviluppando un etica di responsabilità e non solo di denuncia; l’utente-professionalizzato si costruisce attraverso l’esperienza dei malattia specie laddove con la transizione epidemiologica sono le malattia ad andamento cronico ad imporre una nuova assunzione di responsabilità da parte dello stesso paziente o familiare. Rimane infine la figura dell’attore- collettivo, quel soggetto che aveva agitato le menti dei grandi costruttori di nuove relazioni della stagioni delle lotte operaie e che ora non ha più diritto di cittadinanza nella società dis-intermediata, dove la medicina è stata de-sacralizzata nei suoi aspetti sacerdotali e volgarizzata per renderne merce di consumo da acquistare liberamente nei vari supermarket della salute
De-sacralizzazione delle medicina e farmacologizzazione della società
Il processo di de-sacralizzazione della medicina è il risultato di un passaggio di fase che ha investito la nostra società in cui il processo di
medicalizzazione della società medesima, in cui erano ancora protagonisti gli attori in carne ed ossa, è stato sostituito da quello della
farmacologizzazione dove le grandi
corporations anonime, attraverso aggressive strategie di marketing e la diffusione delle conoscenze in rete si rivolgono direttamente la cittadino-auto prescrittore per la vendita dei loro prodotti: dai farmaci di banco per le artromialgie agli alimenti ( specie quelli gluten o nikel-free) dagli integratori ai modulatori dell’umore dai farmaci per migliorare il grado d attenzione dei bambini ai potenziatori delle performance sessuale.
Il farmaco ha in buona sostanza sostituito non solo la obsoleta figura del medico patriarcale ma anche quella del medico esperienzato che costruisce il suo sapere attraverso un faticoso apprendistato in un mix di teoria e prassi e un lungo tirocinio sotto la guida di un maestro. Un sapere che è un loop di teoria-prassi-teoria per costruire nuovo sapere dall’analisi della datità della realtà.
La farmacologizzazione della società è dunque una forma di investimento della vita moderna che assume la dimensione di un vero assoggettamento del nostro modo di essere, di vivere e di provare emozioni( anche negative di tristezza o impotenza) agli interessi materiali della grandi corporations. Si creano finti bisogni, malattie insistenti (overdiagnosis) solo ed esclusivamente per vendere il rimedio e per questo la figura del medico diventa non più una risorsa ma un ostacolo al libero incontro tra offerta e domanda.
La corrresponsabilità del declino
Il declino della professione medica e la proletarizzazione della categoria non è un portato invitabile della post modernità o della diffusione verso il basso di saperi. E’ al contrario, il risultato di un nuovo equilibrio tra gli attori istituzionali in cui il ruolo di stakeholder è passato dai medici ad altri player del campo istituzionale. A generare questa nuova polarizzazione del potere a vantaggio della convergenza di interessi tra componente amministrativa (come diretta espressione dell’interlocutore politico) e complesso farmaco-industriale privato in cui al cittadino viene di fatto lasciata la libertà di consumare o di gestire la propria malattia cronica (che nessun sistema ha interesse ad assistere direttamente per l’insostenibilità di un’assistenza h 24) ha tuttavia largamente contribuito l’insipienza delle organizzazioni di rappresentanza dei medici: dagli organi istituzionali ad iscrizione obbligatoria a quelli di libera associazione come i sindacati
Gli organi di rappresentanza istituzionale (ordini professionali e FNOMCEO) sono in realtà una oligarchia in cui la principale preoccupazione del vertice è stata finora quella di non passare la mano impedendo un ricambio basato su competenza e autorevolezza: ricambio che si auspica avvenga ora in cui si stanno rinnovando le cariche. La FNOMCEO ha finora non solo assistito indifferente al declino della categoria, ad esclusione di pochissimi suoi membri che si sono opposti a tale deriva, ma lo ha anche favorito affidando la propria rappresentanza in Parlamento a soggetti che non hanno difeso gli interessi legittimi della professione.
In momenti così drammatici per la categoria la Federazione avrebbe dovuto rivolgersi direttamente ai Presidenti di Camera e Senato, al Presidente della Repubblica, al Ministro della Salute e a tutte le forze politiche per denunciare senza mezzi termini come la situazione sia ormai fuori da ogni controllo e come i medici non possano tollerare altro. Ed invece nella Federazione il tempo finora è stato privo di gravità e l’attenzione è rimasta rivolta quasi esclusivamente all’eterno valzer di incarichi e poltroni delle prime linee che non portano nessuna utilità a chi (la stragrande maggioranza dei medici costretti a pagare la quota associativa) è fuori dal giro.
I sindacati medici hanno perso anche essi la loro battaglia per motivi che abbiamo già in parte ricordato. Gli autonomi non hanno più alcuna reale interlocuzione con la politica avendo delegato tale funzione ai pochi eletti in parlamento che giocano alle grandi strategie senza affrontare nessuno dei problemi reali della categoria o promuovendo leggi pasticciate come quella della responsabilità professionale o dei nuovi ordini professionali. I secondi hanno totalmente compresso gli spazi di autonomia dei medici iscritti a vantaggio delle altre figure professionali (dirigenti e personale del comparto) rinunciando ad una idea di professione in cui l’etica sia realmente coniugata con la specificità professionale , la ricerca e la promozione culturale.
La realtà desolante che i medici che operano giornalmente nelle strutture sanitarie toccano con mano è quella di una perdita di ogni potere negoziale e di totale subordinazione ai vertici aziendali o regionali. Le assurde politiche di austerità hanno compresso esclusivamente la spesa per il personale lasciando invece che quella per beni e servizi continuasse a crescere. Il risultato: aumento spaventoso dei carichi di lavoro, compressione del salario, mancato adeguamento salariale, tassazione vessatoria anche sui redditi di libera professione il cui valore orario è di gran lunga inferiore a quello che era l’ex straordinario.
Ripartire dalla professione
Il contributo che i medici hanno dato perché nel nostro paese si costituisse un servizio sanitario universalistico non è stato di poco conto e di questi Basaglia e Maccacaro hanno rappresentato una componente di punta ma non esclusiva. Accanto allora intere generazioni di medici si sono battuti per il superamento del modello parsonisano di relazione col paziente non avendo timore di mettere in discussione i propri privilegi.
Oggi tuttavia la situazione ha subito un capovolgimento totale e insopportabile e il lavoro dei medici viene considerato un disvalore, un costo da abbattere, una spesa da comprimere attraverso operazioni di sostituzione con personale meno qualificato per formazione ed esperienza professionale.
Ancora più preoccupante il fenomeno di farmacologizzazione della sanità e le politiche di disintermediazione portate avanti da politici, produttori privati e talvolta anche dalle forza sociali che intravedono nella sanità complementare spazi per cogestire fondi, incarichi e nuovo potere negoziale.
In questa operazione, tuttavia è il paziente che si illude di avere un maggiore potere contrattuale. Il ruolo che gli attuali stakeholder gli concedono infatti non è quello dell’attore collettivo, in grado di promuovere una nuova politica sanitaria capace di incidere sulle vere cause di malattia ma quello dell’utente-cliente o dell’utente professionalizzato che sceglie tra un panel di prodotti commercializzati senza alcuna prova di reale efficacia o che si deve arrangiare per assistere sé stesso o i propri parenti.
Una prospettiva che deve essere contrastata da tutti coloro che si sono battuti perché la sanità divenisse un servizio di utilità pubblica e non un mercato di beni da consumare. Una sanità in cui al medico deve essere riconosciuto il posto che merita perché è pur sempre chi fa diagnosi e terapia e se ne assume la responsabilità che ha in mano il destino dei pazienti.
Roberto Polillo
11 gennaio 2018
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