Come uscire dal vicolo cieco delle “non riforme” in sanità. Intanto ammettiamo tuti i limiti della 833 (quinta parte)
di Ivan Cavicchi
Dopo 40 anni, abbiamo a che fare con un paradosso: di quella storica riforma di cui sono rimasti i suoi postulati di fondo, sono sparite tutte le parti positive, mentre sono sopravvissuti intatti tutti i suoi limiti culturali
17 DIC - Ci troviamo nei guai perché non abbiamo riformato quello che avremmo dovuto riformare. Se vogliamo uscire dai nostri guai oggi dobbiamo riformare non contro riformare. Questa la mia tesi politica.
Ma perché non abbiamo riformato quando avremmo dovuto e potuto farlo? Di chi è la colpa? Quali le responsabilità?
Forse non è il caso di parlare di colpe ma di:
· limiti storici politici e culturali, considerandoli come tratti caratteristici del tempo;
· scelte politiche sbagliate nei confronti del problema sostenibilità;
· errori legati a letture sbagliate delle situazioni e delle circostanze.
Il patatrac si ha quando tutte queste cose fanno massa sovrapponendosi con la crescita della spesa...cioè nasce dalla loro interazione.
Sui limiti della riforma sanitaria del ‘78 fino ad ora (a parte i miei lavori degli anni ‘80 e ‘90 considerati per il tempo eccentrici) non c’è stata una analisi né una ricerca organica approfondita perché fino ad ora è prevalsa la linea dell’attuazione. Ma oggi, dopo 40 anni, abbiamo a che fare con un paradosso: di quella storica riforma di cui sono rimasti i suoi postulati di fondo, sono sparite tutte le parti positive, mentre sono sopravvissuti intatti tutti i suoi limiti culturali che a tutt’oggi ci perseguitano perché in parte sono passati nelle riforme successive (1992/1999) in parte perché ancora non hanno incontrato un pensiero riformatore adeguato che li affrontasse.
I limiti della riforma del ‘78 sono parecchi (li affronteremo) ma quelli più macroscopici sono due:
· i suoi ritardi storici (è stata copiata dalla riforma inglese come prototipo ma 40 anni dopo quando gli inglesi avevano cambiato già molte volte);
· la sua notevole regressività culturale (cioè il suo pensiero e il suo modo di pensare, che sembrano fuori dal cambiamento culturale dell’epoca).
La riforma del ‘78 non era in grado di riformare l’uso e il consumo della sanità perché non conteneva le istruzioni culturali per farlo...essa cambia la struttura e l’organizzazione del sistema sanitario ma non la sua sovrastruttura culturale che resta mutualistica. Cioè la riforma non cambia il lavoro, le prassi, l’operatività, non cambia gli operatori, la cultura della cura e quindi non fa salute. In questo modo la domanda di cura continua ad essere di stampo mutualistico.
Questo è macroscopicamente visibile in particolare in quegli articoli dove si definiscono le prestazioni da erogare in perfetta continuità con il
“personale dipendente o convenzionato”che c’è (art. 25) cioè a lavoro invariante. Il lavoro non è riformato ma ribadito in tutti i suoi anacronismi in perfetta continuità con i principi del pubblico impiego (art. 47) e secondo “
qualifiche funzionali” che al tempo appartenevano ormai ai quei sistemi e a quei mondi burocratici che la riforma avrebbe dovuto riformare. Per cui l’uso della sanità resta nei fatti mutualistico. L’offerta di prestazioni cambia di quantità ma non di qualità diventando a causa di ciò sempre meno sostenibile.
A questo limite davvero non secondario si aggiunge quello del riformatore dell’epoca che anziché sostenere la riforma del ‘78 con altre riforme (soprattutto quella degli studi di medicina) finisce per lasciarla sola, cioè per isolarla, nell’illusione che essa si auto esplicherà. Ma nessuna norma è in grado di autoesplicarsi se non è coadiuvata da tutte le necessarie condizioni per la sua attuazione. Meno che mai se essa, producendo inconvenienti di insostenibilità, diventerà paradossalmente un problema. Senza una riforma del lavoro la riforma del ’78 dal punto di vista dell’uso e del consumo di assistenza sanitaria ha cambiato ben poco.
Oggi per me dire riforma significa in particolare riformare la sovrastruttura riformando il lavoro, l’operatività, i servizi come sono concepiti, gli approcci per fare salute primaria con lo scopo di dequantificare il fabbisogno finanziario ma facendo più salute di prima. Se la sostenibilità fosse intesa come produzione crescente di salute la spesa sanitaria sarebbe relativamente dequantificata. Ma se al contrario la cura resta di stampo mutualistico per forza il sistema avrà bisogno di un fabbisogno incrementale perché dovrà inseguire le malattie costando a causa soprattutto dell’innovazione delle terapie sempre di più.
A questi limiti di fondo si aggiungono scelte ed errori. La riforma del ‘78 diventò praticamente un ostacolo perché, finì con l’accentuare i problemi di sostenibilità. Già negli anni ‘80 il problema politico non era più quello di attuarla e meno che mai di sviluppare parallelamente altre riforme, ancor meno di riformare il lavoro, i rapporti con la comunità ma era quello di gestire la spesa. Così vennero meno sia le ragioni del cambiamento sociale e culturale che avevano reso necessaria la riforma, sia le ragioni per le quali avremmo dovuto correggerne i limiti e fare altre riforme. La bestia che 13 anni fa definii in un libro “
economicismo” e che oggi ha la forma del definanziamento nasce negli anni 80. Nasce non perché si è riformato ma perché non si è riformato.
Questa rottura con il processo riformatore appena avviato e che negli anni ‘90 ci porterà all’azienda (scelta che oggi si rivela del tutto deludente) darà avvio ad una processione interminabile di politiche economicistiche:
· prima provvedimenti contingenti e urgenti quali misure di contenimento della spesa,
· poi l’adozione di vere e proprie politiche calmieratrici ,
· quindi misure crescenti per la riduzione dei costi
· e ancora misure per la tassazione dei consumi (ticket),
· poi il finanziamento in deficit cioè fingendo fabbisogni più bassi al momento della loro approvazione per poi compensarli con i ripiani a piè di lista,
· e a seguire le famose misure di sotto finanziamento,
· poi i fallimentari patti per la salute, fino ad arrivare ai giorni nostri
· quindi ai tagli lineari, ai piani di rientro, alla spending review, al definanziamento programmato ecc.
Oggi come allora siamo alle prese con lo stesso problema. Con la differenza che oggi dopo 40 di economicismo il sistema è stremato.
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Ivan Cavicchi
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17 dicembre 2015
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