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Metodo Zamboni. Allerta Fda: “Dite ai pazienti che i benefici non sono provati”


Del legame tra l’insufficienza venosa cronica cerebrospinale con la sclerosi multipla non ci sono ancora prove definitive, così come non si sa ancora se la procedura per liberare i vasi sanguigni sia efficace per trattare la patologia autoimmune. Dagli Usa un freno al metodo Zamboni. Ma si apre alla ricerca.

18 MAG - “I pazienti con sclerosi multipla che voglio sottoporsi all’intervento per trattare l’insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI) devono sapere che questo può avere ripercussioni anche gravi e portare addirittura alla morte. Inoltre, bisogna informarli che i benefici di questa procedura sperimentale non sono ancora stati dimostrati. La promozione del metodo come trattamento per la sclerosi multipla potrebbe infatti portare i malati a prendere decisioni affrettate, senza realmente conoscere i rischi che si possono correre”. Niente mezzi termini, nel comunicato rilasciato dalla Food and Drug Administration statunitense, che si appella a pazienti e medici a valutare con attenzione pro e contro del metodo Zamboni e degli altri metodi che liberano le vene cervicali e che secondo il medico italiano potrebbe curare la sclerosi multipla.
 
“La causa della sclerosi non è nota”, aggiunge nel comunicato l’ente governativo. “Alcuni ricercatori pensano che il restringimento di alcune vene specifiche nel collo e nel petto potrebbe causare la patologia o contribuirne alla progressione, rendendo difficile il deflusso del sangue dal cervello e dalla spina dorsale alta: questo restringimento viene da taluni definito sindrome, col nome CCSVI. Tuttavia, nessuno studio è ancora riuscito a dimostrare se il legame tra questa patologia e la sclerosi multipla sia reale”.
In altre parole: alcuni studi suggeriscono che le due malattie siano legate, ma al momento l’Fda non crede che i dati relativi ai trial clinici siano sufficienti a dichiarare la procedura che libera le vene del collo come un trattamento per la sclerosi multipla. Anche perché, spiegano gli esperti, gli stent usati per questo scopo non sono mai stati testati per le vene giugulari, dunque i palloncini che liberano questi vasi sanguigni potrebbero non essere del tutto adatti, e dunque pericolosi per i pazienti.
Ma non solo. Il problema, secondo l’Fda, è che i criteri per diagnosticare la CCSVI non esistono, o meglio non sono mai stati definiti univocamente. Ed ecco perché gli studi che indagano l’entità clinica della patologia e il suo legame con la sclerosi multipla non solo sono spesso inconcludenti, ma anche contraddittori.
 
Tuttavia, valutare la casistica degli eventi avversi può essere complicato, proprio perché gli studi non sono tutti della stessa qualità: sicuramente è stato registrato nel tempo un paziente morto a seguito della procedura ed uno rimasto paralizzato, così come sono registrati casi di stent che si sono spostati dalla vena e sono migrati in altri luoghi dell’organismo, talvolta addirittura nel cuore. “Ma la frequenza di queste complicazioni gravi non è nota”, spiegano dall’Fda: in sostanza potrebbe anche trattarsi di casi singoli o incidenti che sarebbe possibile prevenire se la procedura diventasse standard.
Insomma, nonostante le dure parole – e una serie di raccomandazioni di sicurezza per pazienti e professionisti – l’Fda mette in allerta ma non boccia del tutto i metodi per liberare le vene del collo e della base della testa. Più che altro, andando avanti nel comunicato, sembra che siano rimandate a settembre: “L’Fda incoraggia la ricerca per valutare il legame tra CCSVI e sclerosi multipla – scrivono in fondo al comunicato – nonché per provare efficacia e sicurezza della procedura. Se i prossimi studi verranno condotti in modo rigoroso potremo capire se l’insufficienza venosa cronica cerebrospinale esiste e che relazione ha con la patologia autoimmune, il che, in futuro, potrebbe aiutare medici e pazienti a trovare una soluzione definitiva a queste patologie”.
Nel frattempo i medici dovrebbero spiegare ai pazienti tutte le contraddizioni della procedura e i possibili effetti collaterali, nonché informarli della mancanza di criteri diagnostici per la CCSVI e di prove ancora definitive dell’efficacia del metodo Zamboni. Così, se poi i pazienti vogliono comunque sottoporsi alla procedura ne conoscono sia rischi che benefici.
 
Laura Berardi

18 maggio 2012
© Riproduzione riservata

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