Sindrome post-Covid-19: quali sono gli effetti a lungo termine del coronavirus?
di Camilla de Fazio
Stanchezza, difficoltà respiratorie, problemi di memorizzazione e una sorta di “nebbia nel cervello”. Ma anche insonnia, perdita del gusto e dell’olfatto e rash cutanei. Due tamponi negativi non vogliono dire che il corpo è guarito: anche mesi dopo l’infezione da Sars-Cov-2 i pazienti continuano a presentare dei sintomi. In tutto il mondo sono in corso degli studi di follow-up che permetteranno di capire l’entità e la durata di questi effetti a lungo termine, la cosiddetta “sindrome post-Covid-19”
02 SET - Sono passati sei mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria in Italia e dal giorno in cui l’Oms ha dichiarato che Covid-19 fosse una pandemia. Tra le molte incognite che restano ancora (per il momento) senza risposta sul nuovo coronavirus ci sono anche gli effetti a lungo termine che la malattia ha sulla salute dei pazienti. In molti soggetti, in particolare nei casi gravi, ma non solo, anche una volta che l’infezione vera e propria è finita persistono diversi sintomi, come la stanchezza e l’aritmia. Quanto dureranno? Quale può essere l’entità del danno anche a distanza di tempo?
Anche se queste sono al momento domande a cui naturalmente non è possibile dare una risposta, sono in corso molti studi che analizzano quella che è stata definita “sindrome post-Covid-19”. Alcuni, pochi, studi che presentano i primi risultati sono già stati pubblicati.
“Al momento i sintomi principali riportati dai pazienti dopo l’infezione sono tre: un senso profondo di stanchezza (astenia, fatigue in inglese), l’affanno, quindi difficoltà a respirare profondamente e dolori alle ossa e ai muscoli al livello del torace, associati a una difficoltà respiratoria”, spiega il Dottor
Angelo Carfì, geriatra alla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e primo autore di
un articolo pubblicato su JAMA. La ricerca analizza i sintomi lamentati dai soggetti che hanno sofferto di una forma grave di Covid-19, a circa due mesi dalla dimissione ospedaliera.
Un senso profondo di stanchezza
Il sintomo persistente più inquietante e comune sembra essere proprio la stanchezza.
Intervistato da Science,
Michael Marks, specialista in malattie infettive alla
London School of Hygiene & Tropical Medicine ha precisato l’importanza di rintracciare i sintomi che causano tale stanchezza per poterla gestire. Alla base della fatigue potrebbe esserci una fibrosi polmonare o una funzione cardiaca compromessa, ad esempio. “La stanchezza profonda è un sintomo aspecifico”, conferma Carfì. “Anche quando abbiamo l’influenza avvertiamo questo senso di stanchezza, principalmente dovuto alle citochine infiammatorie rilasciate dal sistema immunitario al fine di arginare il patogeno invasore”. Ci sono diversi fattori che potrebbero spiegare perché il sintomo persiste nel tempo: “la liberazione di citochine, che continua anche dopo l’infezione perché il corpo si sta ricostituendo, oppure una persistenza del virus negli organi”, ipotizza il dottore. L’astenia potrebbe anche essere dovuta “all’impatto devastante che ha avuto la patologia non solo dal punto di vista organico ma anche sul morale, sulla motivazione, sull’aspetto cognitivo”. L’isolamento, il ricovero, la drammaticità dell’emergenza sanitaria inedita sono un’esperienza molto traumatica.
È più facile identificare le basi fisiopatologiche della dispnea, dovuta al fatto che i polmoni, gli organi più fortemente colpiti dal Covid-19, sono in corso di guarigione e ci vuole un po’ di tempo perché i tessuti si ricostituiscano completamente. Il neurologo
Michael Zandi citato nell’articolo di
Science, sottolinea come anche malattie comuni come la polmonite possono necessitare di un periodo di recupero di circa un mese. L’astenia, ad esempio, è molto comune nella fase di convalescenza della mononucleosi, precisa Carfì.
Nei casi molto gravi di Covid-19 però si è verificata una sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS). In una percentuale di questi pazienti, sottolinea il dottore, “ il sovvertimento micro-anatomico che avviene durante l’infezione può causare dei problemi che durano tutta la vita. Le parti di polmone che sono state danneggiate non guariscono mai completamente”. Una valutazione del genere però potrà essere fatta con precisione grazie a studi più duraturi nel tempo, come è avvenuto per la prima sindrome respiratoria acuta grave (Sars) e la sindrome respiratoria mediorientale (Mers). Entrambe possono devastare i polmoni e
uno studio condotto su operatori sanitari affetti da Sars nel 2003 ha rilevato che coloro che presentavano lesioni polmonari un anno dopo l'infezione le avevano ancora dopo 15 anni.
Un altro studio, cinese, mostra che 12 anni dopo aver contratto il virus Sars-Cov, un piccolo gruppo di pazienti sopravvissuti era più incline alle infezioni (la metà dei pazienti aveva avuto almeno cinque raffreddori nell’anno precedente). Covid-19 è comunque una malattia più lieve rispetto a Sars e Mers e al momento “nessuno è in grado di prevedere quale sarà la percentuale di pazienti che si riprenderanno e quanti invece avranno danni a lungo termine”, come ha dichiarato a
Science il medico
Michelle Biehl, della Cleveland Clinic in Ohio.
La nebbia nel cervello
Un altro sintomo comune e preoccupante è la difficoltà a pensare con chiarezza. Una sorta di “nebbia nel cervello” accompagnata a problemi di memoria. Questo deficit cognitivo resta un mistero per i clinici, ma ha delle basi obiettive. Neurologi e psichiatri del Gemelli hanno sottoposto i pazienti a test psicologici per quantificare e valutare oggettivamente questi sintomi. “Le analisi preliminari mostrano che la performance di questi pazienti è inferiore a quella attesa per la loro fascia di età (tra i 50 e i 60 anni).
Non si sa ancora se ciò possa essere dovuto ad un’azione diretta del virus sui neuroni, ma
alcuni ricercatori ipotizzano che questo possa anche aumentare il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson o la malattia di Alzheimer. Cosa plausibile secondo Carfì che immagina che l’infezione da Covid-19 possa aggravare una situazione di pre-Alzheimer per esempio. “L’eccessivo stress a cui un paziente che ha una predisposizione per la malattia verrebbe sottoposto a causa del virus potrebbe portare ad una manifestazione più rapida dei primi sintomi”.
In alcuni pazienti persistono poi tosse, perdita del gusto e dell’olfatto, mal di testa, vertigini, insonnia, rash cutanei ed anche aritmia. Diversi studi sottolineano infatti come il virus possa danneggiare la funzione cardiaca in modo duraturo.
Una ricerca pubblicata su JAMA Cardiology ha rilevato che su 100 pazienti che avevano avuto il Covid-19, 78 presentavano anomalie cardiache e molto spesso infiammazione del muscolo cardiaco a 10 settimane dalla diagnosi.
Gli studi in corso
La maggior parte degli articoli pubblicati fin ora sulla “sindrome post-Covid” si limitano a riportare i sintomi riferiti dai pazienti senza effettuare un esame obiettivo che confermi l’esistenza di problemi che comportano tali sintomi. Degli esami obiettivi vengono comunque condotti attualmente in tutto il mondo, ci spiega Carfì e forniranno dati molto solidi. Al momento lo studio di follow-up più vasto che è stato lanciato è
PHOSP-COVID, condotto nel Regno Unito da un consorzio di ricercatori e clinici che intende valutare gli effetti a lungo termine del Covid-19 in circa 10.000 soggetti per un anno.
I medici del Gemelli continueranno invece a seguire i pazienti, effettuando esami obiettivi per valutare la performance respiratoria e le performance cognitive, ad esempio. Queste analisi inizialmente non erano inserite nel contesto di uno studio clinico, ma nascono dalla necessità pratica di seguire i pazienti che erano stati dimessi. “I medici al Gemelli si sono resi conto che anche coloro che rispondevano ai criteri per le dimissioni (due tamponi negativi), non erano del tutto guariti”, spiega Carfì, “abbiamo quindi deciso di rivederli per un controllo a distanza di tempo. A questa iniziativa hanno partecipato moltissimi esperti: psichiatri, otorini (che valutano gusto e olfatto), pneumologi, infettivologi, gastroenterologi.. Ogni specialista ha raccolto i dati in modo molto standardizzato e preciso e parte dell’anamnesi è stata raccolta e pubblicata su JAMA”. Quel primo lavoro viene adesso esteso: i pazienti sono attualmente 350 e per ognuno vengono raccolte circa 1.500 variabili. “L’ideale sarebbe rivedere tutti questi pazienti dopo 6 mesi o un anno per capire se questi sintomi sono persistenti ma non permanenti”, conclude il dottore. Le ricerche si concentrano sui casi gravi, di persone che sono state ospedalizzate, sopratutto perché i casi lievi sono più difficili da studiare clinicamente.
Questi e molti altri studi in corso in tutto il mondo saranno indispensabili per scoprire le basi degli effetti a lungo termine del Covid-19, quanto durano e come migliorare le condizioni dei pazienti una volta che sono stati dimessi dall’ospedale.
Camilla de Fazio
02 settembre 2020
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