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Il Coronavirus... e noi

di Fabio Cembrani

Quest’emergenza ci ha invitato a migliorare la nostra capacità di resilienza, ad affrontare e superare gli eventi traumatici che l’esperienza ci riserva, ad adattarci ai cambiamenti, a riorganizzare positivamente la nostra vita, a ripensare al bene pubblico, a dare slancio alle nostre esistenze, ad assorbire cioè gli urti senza romperci coltivando la speranza, a scoprire nuovi spazi al di là delle invasioni esterne in una dimensione che renda davvero non fittizio coltivare il nostro dovere di cittadinanza

16 MAR - Molte (probabilmente troppe) sono le cose dette e scritte riguardo all’emergenza internazionale provocata dalla pandemia del nuovo Coronavirus umano. Anche chi di noi ha un minimo di competenza scientifica ha spesso faticato a capire ciò che stava realmente accadendo nonostante le periodiche (oramai stucchevoli) conferenze stampa riprese ed amplificate dai media.
 
Troppe le affermazioni, troppe le smentite, troppe le sterzate, troppi i revirement sul potere protettivo delle mascherine, sulle distanze di sicurezza, sul periodo di contagiosità, sulla pericolosità dei positivi asintomatici, sulla persistenza nel virus sulle superficie o nell’aria. Ed altrettanti troppi i silenzi imbarazzanti riguardo ai quali poco si è riflettuto. Uno per tutti: inizialmente il focus attenzionale (dichiarato) delle nostre Autorità pubbliche era quello di contenere il numero dei malati e dei decessi da Covid-19, ora è, invece, quello di non far collassare il Servizio sanitario nazionale.
 
In realtà territoriali dove la sanità fortunatamente mantiene un buon livello di funzionamento perché, pur senza essere tacciati di pessimismo, gli scenari potranno diventare catastrofici nell’ipotesi in cui i focolai epidemici dovessero interessare le regioni del sud dell’Italia dove sappiamo benissimo quali e quanti a scapito del bene pubblico sono stati gli sprechi, i mancati investimenti e gli episodi di corruzione.
 
Questo salto di prospettiva è di tutta evidenza e risulterà più chiaro a tutti analizzando il documento della SIARTI (Raccomandazione di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili) nel quale sono indicati i criteri da seguire nell’avvio selezionato (razionato) delle persone alle cure intensive.
 
Sia pur a fronte della straordinarietà dell’emergenza italiana, la SIARTI ha così ritenuto che l’età della persona e la sua situazione funzionale siano sempre elementi da valutare nell’avvio della terapia intensiva per “garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico” privilegiando così la maggior speranza di vita. Il risultato è quello di un approccio mercantile alla tutela della salute ed una visione davvero parziale e distorta della dignità umana che non può essere delegittimata dall’età della persona e dalla sua situazione funzionale che, naturalmente, sul piano prognostico, condizionano statisticamente ogni speranza di vita.
 
Pur comprendendo la grande preoccupazione degli anestesisti italiani occorre però discutere riguardo alle soluzioni da loro proposte che confondono l’appropriatezza economica con quella etica. La quale non è il risultato di una banale frazione (i benefici al nominatore ed i costi al denominatore) perché in sanità pubblica la value è il risultato di un più complesso rapporto che deve trovare un ragionevole equilibrio tra l’ evidence-based medicine e la patient-centered care. Il valore della vita umana non può essere mai derubricato per ragioni economiche anche se la parità di bilancio è entrata a far parte dei principi costituzionali ed il rispetto della dignità umana mai deve essere subordinato alle insufficienze della nostra organizzazione sanitaria.
 
C’è, tuttavia, un’altra questione posta dalla pandemia del Coronavirus che riguarda più da vicino le nostre vite perché, improvvisamente e d’un sol colpo, questa nuova infezione ha frantumato tutte le nostre apparenti certezze: la globalizzazione, gli interessi dei mercati, le nostre presunte solidità coscienziali ed il nostro stesso modo agiato di vivere. Improvvisamente il nuovo virus, con la sua biologica apparente insignificanza, ci ha precipitati nel baratro di una crisi antropologica imprevista non ancora colta nella sua straordinaria rilevanza, favorita da un tessuto sociale povero di valori, dalla perdita della dimensione collettiva del vivere umano, da una liquidità che ha smarrito il senso ed il valore del tempo, da un io assemblato in parti smontabili ed in continua ricombinazione e dall’emersione di un agguerrito e potentissimo dèmone: l’individualismo egoico e narcisista dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista dell’altro da cui bisogna difendersi e da quell’apparire, a tutti costi e con ogni mezzo, divenuto l’insignificante valore del consumismo moderno.
 
Un consumismo pervasivo, straordinariamente agguerrito, molto forte, davvero prepotente, perpetuato da una rete capillare di controllo capace di profilarci per programmare tutte le nostre scelte personali, controllare i nostri corpi e condizionare le nostre menti dalle quali è stata rimossa ogni prospettiva etica. Che si è fortificato cavalcando le ambiziose prospettive aperte dall’affermarsi dei diritti inviolabili dell’essere umano che abbiamo però distorto collocandoli nella sola prospettiva della nostra auto-realizzazione personale illudendoci di essere divenuti i padroni assoluti del mondo e del nostro personale destino.
 
Subordinando ad essi i doveri inderogabili sanciti, oltre che dalla nostra Carta costituzionale, dall’etica della responsabilità e dell’impegno e senza i quali, naturalmente, l’affermazione egemonica dei diritti individuali non è compatibile con la tenuta della socialità.
L’emergenza sanitaria con cui stiamo convivendo (e che non sembra destinata a risolversi nel breve periodo) ci ha così costretti, in qualche modo, a riappropriarci delle nostre vite reali delocalizzando definitivamente quel marketing dell’identità personale dispersa da più vite parallele che si sviluppano spesso negli scenari del virtuale senza nessuna coerenza rispetto alle scelte passate ed a dispetto delle speranze future.
 
L’incertezza in cui siamo improvvisamente precipitati e che ci ha messi di fronte ai limiti della cura ed alla debolezza strutturale della nostra organizzazione sanitaria su cui non si è gran che investito nell’ultimo decennio sembra aver però positivamente scosso il moderno Narciso imponendogli un giro di vita; a non pensare solo agli impegni finalizzati alla sua egoica autorealizzazione, a pretendere solo diritti senza mai dare ad essi una qualche contropartita pubblica, a recuperare il valore del tempo, a pensare all’altro in termini solidaristici (l’èquipe cinese arrivata da poco in Italia ne è uno straordinario esempio), a non svincolarsi in continuo da quei doveri e da quelle promesse che realizzano i nostri progetti di vita.
 
Se questa incertezza feconderà positivamente la bulimia senza scopo dell’attuale post-modernità non è dato ancora sapere. Ma le prospettive, pur nella drammaticità della situazione attuale, appaiono positive perché, paradossalmente, le nostre interiorità sono state costrette a riappacificarsi tra loro sotto finalmente la guida della ritrovata consapevolezza con la messa in atto di comportamenti più salutari, la valorizzazione di ciò che abbiamo, la presa in carico responsabile degli altri (soprattutto delle fasce della popolazione più fragile) e la nostra migliorata capacità di resilienza.
 
La situazione emergenziale che stiamo vivendo ci ha fatto capire quanto realmente vale il nostro Servizio sanitario nazionale spesso denigrato ed ora eroico e quanto sia straordinario il valore del capitale umano che in esso giornalmente lavora: medici, infermieri, personale tecnico, personale d’assistenza. E quanto su questo bene pubblico bisogna investire non solo in emergenza perché -ricordiamolo- l’Italia, tra i Paesi dell’OCSE, è tra quelli che riserva al suo finanziamento una delle percentuali più basse del nostro prodotto interno lordo (8,8% rispetto al 16,9% dell’America, al 12,2% della Svizzera ed all’11% di Francia e Germania), ben al di sotto della mediana (15% in meno).
 
In termini sia strutturali, sia di risorse elettromedicali sia, soprattutto, di risorse umane formate, preparate e volenterose, senza dimenticare che sulla ricerca bisognerà pur fare qualche scelta politica visto che molti dei nostri ricercatori più quotati sono costretti a trasferirsi all’estero per completare le loro ricerche scientifiche.
 
Quest’emergenza, nella sua drammaticità attuale, ci ha così invitato a migliorare la nostra capacità di resilienza, ad affrontare e superare gli eventi traumatici che l’esperienza ci riserva, ad adattarci ai cambiamenti, a riorganizzare positivamente la nostra vita, a ripensare al bene pubblico, a dare slancio alle nostre esistenze, ad assorbire cioè gli urti senza romperci coltivando la speranza, a scoprire nuovi spazi al di là delle invasioni esterne in una dimensione che renda davvero non fittizio coltivare il nostro dovere di cittadinanza.
 
Con maturità e senza cedere al pessimismo impegnandoci davvero, con rinnovato slancio e fiducia, a cercare il senso della nostra vita senza disperderla nella confusione e nella rincorsa. Coltivando la speranza che non è uno stato passeggero ma la capacità di saper guardare al futuro per migliorarlo. Guardando responsabilmente e solidaristicamente all’altro perché la nostra vita è fatta di relazioni autentiche con lo sguardo sempre rivolto alle persone più fragili e vulnerabili che spesso sfuggiamo nonostante il loro grido di dolore non sia assolutamente flebile.
Dipenderà da noi, non certo dal Coronavirus …
 
Fabio Cembrani
Direttore UO Medicina legale, Trento


16 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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