Dolore cronico: patologia invalidante, poco conosciuta e sottovalutata
di Marzia Caposio
Circa il 20-25% della popolazione italiana soffre di colore cronico con picchi del 60% sopra i 65 anni. A quasi 10 anni dall’approvazione della legge 38/2010 manca ancora approccio interdisciplinare e uniformità di applicazione
18 DIC - Il dolore cronico è una condizione clinica invalidante scaturente da un insieme di fattori differenti e correlata a molteplici patologie. Si caratterizza per essere duraturo nel tempo, accompagna spesso l’evoluzione di diverse malattie, ad esempio oncologiche, reumatologiche, neurologiche o muscolo-scheletriche, e può essere correlato ad ulteriori stati di malessere psico-fisico, quali depressione e ansia. “Da anni”, precisa
Marco Lacerenza, neurologo esperto in neurofisiologia e terapia del dolore in Humanitas San Pio X, “per dolore cronico si intende un dolore che dura da più tre mesi mentre nel passato si parlava di oltre 6 mesi”. La sua natura profondamente soggettiva e complessa, fatta di componenti sensoriali ed emotive, lo porta ad essere spesso sottovalutato sia dai pazienti che dagli operatori sanitari, rimanendo a lungo non gestito e impattando in modo significativo sulla qualità di vita di coloro che ne soffrono e su quella dei loro caregiver e familiari.
“Esistono due categorie importanti di dolore cronico - prosegue Lacerenza - il dolore nocicettivo e il dolore neuropatico. In quest’ultimo, ci troviamo di fronte ad una lesione o malattia che colpisce il sistema nervoso ed in particolare il sistema somatosensoriale. Esempi di dolore neuropatico sono la sciatica, la neuropatia diabetica, la nevralgia posterpetica, fino ad arrivare al dolore post stroke o alla sclerosi multipla. Ora, il dolore neuropatico, per sua intrinseca alterazione della via somatosensoriale, è un dolore che tende a cronicizzarsi. Nella nevralgia posterpetica per esempio – spiega ancora Lacerenza – tanto più il paziente è in età avanzata, tanto più sarà facile che il dolore si prolunghi nel tempo”, rendendo così la gestione della ‘patologia nella patologia’ ancora più complessa in quanto il paziente anziano “può essere un paziente fragile, spesso con comorbidità”, precisa.
Il dolore cronico si manifesta, dunque, in pazienti complessi, con una prevalenza nella popolazione femminile e con maggiore incidenza negli anziani. “In Italia si stima che interessi circa il 20-25% della popolazione”, specifica l’esperto. “Con l’avanzare dell’età poi, i dati cambiano: sopra i 65 anni, ci avviciniamo al 60%. Sicuramente in questo ambito, i numeri maggiori sono a carico del dolore cronico di origine muscolo-scheletrica. Abbiamo visto come il dolore cronico di tipo neuropatico, che ha una prevalenza nella popolazione generale tra il 6 e l’8%, con l’avanzare degli anni diventi più frequente; bene, stesso discorso vale, per esempio, per l’osteoartrosi”, prosegue. A tal riguardo, colpisce un dato emerso dal Report Health Search firmato SIMG del 2018 che riporta come, al 2016, il 17% della popolazione italiana soffriva proprio di osteoartrosi (OA). Dal rapporto emergeva che l’OA presenta maggiore prevalenza nel sesso femminile e all’aumentare dell’età, registrando un picco tra gli ultra 85enni.
“Nello specifico caso, il dolore da osteoartrosi di ginocchio è quello di singola articolazione più frequente – spiega Lacerenza – Ancora più frequente nella popolazione generale è il mal di schiena cronico. Ci sono studi in letteratura che sostengono che nel mal di schiena cronico fino al 37% dei pazienti ha una componente neuropatica e quindi una predisposizione, conseguente alla componente neuropatica appunto, alla cronicizzazione del dolore”.
Molte patologie dolorose sono prevalenti nella popolazione femminile, prima fra tutte l’emicrania: “questa forma di cefalea colpisce circa il 14% degli italiani, e il rapporto maschi-femmine di uno a tre rende bene la dimensione del problema. Altre condizioni che riguardano la sfera squisitamente femminile sono la fibromialgia, l’artrite reumatoide, il dolore pelvico cronico o l’endometriosi”. Il dolore cronico poi, si accompagna ad altre patologie “che possono essere in relazione con la causa del dolore, come la neuropatia diabetica dolorosa, il dolore da lesione spinale o il dolore artrosico oppure esserne completamente slegate. I pazienti con dolore neuropatico o nocicettivo cronico, spesso sono anche depressi.
Questa comorbidità, che ha radici profonde comuni nei meccanismi cerebrali che sottendono alle due condizioni cliniche, va affrontata dal punto di vista diagnostico e trattata in modo specifico. Questi soggetti vanno quindi sempre inquadrati anche dal punto di vista psicologico perché il dolore cronico può modificare la percezione della vita, la capacità di utilizzare le proprie risorse rendendo difficile l’affrontare la quotidianità e determinando una riduzione importante della qualità di vita”, puntualizza il neurologo. Per questo motivo dunque è “importantissimo che questi pazienti vengano seguiti da un team multidisciplinare e interdisciplinare. A seconda della patologia, oltre ai terapisti del dolore, devono entrare in gioco fisioterapisti, fisiatri, psicologi, neurologi o altri specialisti, per costruire la strategia terapeutica più utile per il singolo paziente, al fine di realizzare una vera e propria rete orientata al sostegno e alla riabilitazione di questi soggetti”.
Secondo quanto riportato in un recente studio dal titolo Prioritizing Pain: An analysis of the policy environment affecting patients suffering from chronic pain across Europe e presentato in occasione dell’XI Congresso della European Pain Federation EFIC che si è svolto a settembre a Valencia, sono circa 100 milioni le persone che soffrono di dolore cronico in Europa, ma l’attenzione delle autorità politiche verso questo problema è ancora troppo scarsa. Nello specifico, nello studio sono stati presi in considerazione sette paesi europei, quali Italia, Francia, Germania, Spagna, Polonia, Svezia e Gran Bretagna ed in tutti sono emerse difficoltà nella programmazione e gestione del dolore cronico. Sebbene esistano delle linee guida cliniche per la diagnosi, il trattamento e la gestione di questa condizione, l’applicazione è spesso limitata e molti paesi segnalano ritardi sia nella diagnosi che nel management.
L’Italia è uno dei pochi paesi al mondo ad avere una legge a tutela del dolore cronico: la legge 38/2010. Con la sua approvazione, nel 2010, si è sancito il diritto all’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Come suggerisce il Rapporto Meridiano Sanità 2019, se consideriamo il periodo in cui è stata approvata, la legge contiene alcuni aspetti innovativi quali l’inserimento delle cure palliative e della terapia del dolore nei Livelli Essenziali di Assistenza, accessibili tramite il Servizio Sanitario Nazionale in modo gratuito o con pagamento del ticket, su tutto il territorio nazionale; la rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica, con valutazione del grado e tipo di dolore e prescrizione delle terapie farmacologiche da seguire per alleviare il dolore; la costituzione di reti nazionali per le cure palliative, per la terapia del dolore e per l’età pediatrica con la possibilità di cure a domicilio o negli hospice; la semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore; la formazione specifica del personale medico e sanitario. “Sicuramente la legge ha portato ad un cambiamento molto positivo. Forse l’aspetto più significativo, oltre al mettere in evidenza il tema dolore, è proprio l’istituzione della rete dei centri di terapia del dolore che possiamo trovare in tutte le Regioni italiane come hub e spoke”, prosegue Lacerenza.
“Altro punto fondamentale, è l’aver reso più semplice il meccanismo di prescrizione di alcuni farmaci quali gli oppiodi, per esempio. Tuttavia – precisa – a distanza di quasi dieci anni, dal mio punto di vista, non siamo riusciti a implementare al meglio quei sistemi interdisciplinari che possono sostenere il paziente nel suo percorso diagnostico-terapeutico. Manca ancora una visione del paziente a 360°; a volte, si trascura l’aspetto psicologico trattando un paziente che ha delle comorbidità psichiatriche, come ansia, depressione e altro, con terapie, anche invasive, prima di aver curato queste altre condizioni”, prosegue l’esperto. Tutta la medicina moderna, puntualizza, “dovrebbe orientarsi verso la cura del paziente specifico e non verso la cura della malattia. Il paziente con dolore neuropatico si tratta diversamente dal paziente con dolore muscolo scheletrico; le terapie più utilizzate anche nel dolore cronico sono i farmaci antinfiammatori, i FANS, ma nel dolore neuropatico, per esempio, i FANS non funzionano. Manca, quindi ancora, un po’ la cultura per poter fare una diagnosi il più possibile specifica per arrivare alla strategia terapeutica migliore per quel determinato paziente”.
La frammentarietà dell’applicazione della legge 38/2010 è conseguente alla non completa penetrazione della “cultura del dolore”, in tutte le sue sfaccettature, sia in ambito medico, sia nella popolazione. Molto spesso i pazienti con dolore cronico non sanno che esiste una legge, non sanno che il dolore può e deve essere misurato per essere curato e questo preclude loro la possibilità di avere accesso ai centri in cui il dolore può essere curato nel modo migliore. Serve quindi un’azione informativa sulla popolazione, e non solo”. Anche i clinici spesso non sono correttamente aggiornati. “La formazione continua del professionista della sanità nel campo dolore, può essere sicuramente migliorata. Abbiamo bisogno di più medici, infermieri, psicologi e altri operatori sanitari appassionati al tema dolore! La passione e la cultura genera quella competenza che serve per creare quegli strumenti che rendano ottimale la gestione del paziente con dolore cronico che, come abbiamo visto, è un paziente difficile da trattare”, conclude Lacerenza.
Marzia Caposio
18 dicembre 2019
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