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Parkinson. Se la cura non funziona, può essere colpa del microbioma intestinale. Ecco perché

di Maria Rita Montebelli

Uno studio condotto da ricercatori delle Università di Harvard e di San Francisco ha individuato alcuni batteri del microbioma intestinale in grado di inficiare la risposta alla classica terapia anti-Parkinson, la levodopa. Tra gli imputati, Enterococcus faecalis e Eggerthella lenta, produttori di enzimi che metabolizzano in sequenza la levodopa a livello intestinale, prima cioè che il farmaco possa attraversare la barriera emato-encefalica, rendendolo di fatto inutile. Individuato anche un composto, l’AFMT, in grado di inibire la metabolizzazione della levodopa da parte del microbioma intestinale

16 GIU - Il Parkinson è una condizione neurologica cronica che colpisce oltre l’1% della popolazione mondiale al di sopra dei 60 anni. Il farmaco più utilizzato per il suo trattamento è la levodopa (L-dopa) che per agire, deve arrivare al cervello, dove viene convertita nel neurotrasmettitore dopamina dall’enzima AADC (decarbossilasi degli aminoacidi aromatici).
 
Può succedere però che il farmaco, che si assume per bocca, venga decarbossilato troppo precocemente e nell’organo sbagliato; la dopamina generata nel tratto gastro-intestinale infatti non può attraversare la barriera emato-encefalica e può causare effetti indesiderati. Per questo motivo la levodopa viene somministrata in associazione alla carbidopa (un inibitore dell’AADC) che ne blocca il metabolismo periferico. Nonostante tutte queste accortezze tuttavia, fino al 56% della levodopa somministrata al paziente non arriverà mai al cervello. L’efficacia e gli effetti collaterali del trattamento con L-dopa nel Parkinson sono molto variabili da paziente a paziente, ma fino a qualche tempo fa non si capiva il perché. Fin quando una serie di studi, condotti sull’uomo e su animali da esperimento, hanno dimostrato che anche aluni batteri del microbioma intestinale sono in grado di metabolizzare la levodopa.  L’efficacia della terapia con levodopa in altre parole, può variare in base alla composizione del microbiota.
 
La L-dopa come visto, per essere efficace deve essere decarbossilata in dopamina a livello cerebrale, ma se i batteri del microbiota intestinale la metabolizzano prima che questo agente attraversi la barriera emato-encefalica, il farmaco risulterà inefficace.
Gli autori di uno studio appena pubblicato su (primo nome Vayu Maini Rekdal, Dipartimento di chimica e biochimica dell’Università di Harvard) hanno scoperto che sono diverse le specie batteriche coinvolte nel metabolismo della L-dopa a livello del tratto gastro-intestinale, ma che le principali imputate del fallimento della terapia anti-Parkinson sono l’Enterococcus faecalis, produttore della tirosina decarbossilasi (TDC) e la Eggerthella lenta, produttrice della dopamina deidrossilasi (Dadh), che metabolizzano in sequenza la L-dopa in m-tiramina.
 
Gli autori della ricerca sono dunque andati a vedere se la carbidopa fosse in grado di contrastare la decarbossilazione operata da E. faecalis; il farmaco sfortunatamente è risultato completamente inefficace sul microbioma intestinale dei pazienti con Parkinson. Dopo una serie di tentativi, i ricercatori americani sono riusciti ad individuare un composto,  la (S)-alfa-fluormetiltirosina (AFMT), in grado di inattivare la decarbossilasi della L-dopa di origine batterica.
 
Lo studio pubblicato su Science è dunque riuscito a caratterizzare un pathway coinvolgente diverse specie batteriche nel metabolismo intestinale della L-dopa, dimostrando l’importanza nel microbioma intestinale dell’uomo sull’efficacia o meno di questa terapia. Una diversa composizione del microbioma può dunque spiegare la variabilità di risposta interindividuale alla terapia con levodopa, ivi compresi una ridotta efficacia del farmaco o la comparsa di effetti collaterali.
Questa scoperta potrebbe portare in un prossimo futuro alla produzione di farmaci contenenti associazioni di levodopa-carbidopa e AFMT, mirati appunto a contrastare il metabolismo della levodopa da parte del microbioma intestinale.
 
Maria Rita Montebelli

16 giugno 2019
© Riproduzione riservata

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