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Vaccini: no alle campagne di comunicazione ‘a taglia unica’

di Maria Rita Montebelli

Le false informazioni sui vaccini tendono a persistere nella memoria, ma come smantellarle? Un piccolo studio italo-scozzese è andato ad esplorare gli effetti di varie strategie di comunicazione, ma tutte sembrano ottenere gli effetti opposti a quelli desiderati. La soluzione proposta è quella di prevedere strategie su misura per diverse fasce di popolazione, agendo su più livelli e in modo reiterato. Ma soprattutto consultando sempre gli esperti di comunicazione, prima di lanciarsi in una nuova campagna. L’effetto boomerang è infatti dietro l’angolo.

28 AGO - Gli esperti chiamano ‘vaccine hesitancy’ quell’attitudine, così diffusa in una larga fascia della popolazione, che ostacola le politiche vaccinali e affonda le sue radici nella persistenza di una disinformazione ben confezionata e radicata nella memoria del pubblico. Si, perché la disinformazione è particolarmente ‘appiccicosa’ e tende a persistere nella memoria, nonostante i tentativi di rettifica da parte degli esperti, pronta a tornare a galla al primo vacillamento della fiducia nell’ortodossia medica.
 
Ne è un tragico esempio l’ormai ampiamente sconfessata teoria di Wakefield che attribuiva ai vaccini la comparsa di autismo. Fiumi di inchiostro versato sui sacri testi della letteratura scientifica non sono ancora riusciti a smantellare questo ‘dogma’ anti-scientifico dalla testa di molti. Di fatto pare che le cattive informazioni si radichino nei processi della memoria e qualunque tentativo successivo di correggerli riesce solo a scalfire la superficie, lasciando modo alla cattiva informazione interiorizzata di riaffiorare in tutta la sua nocività ad ogni piè sospinto. Insomma nei circuiti della memoria non esistono ‘retraction’ come accade invece nelle riviste scientifiche che si rispettino.
Difficile è anche, secondo gli esperti, tracciare accuratamente gli effetti della disinformazione, che possono avere anche ricadute ‘a scoppio ritardato’.
Alla luce di tutto ciò è necessario dunque trovare delle pratiche che facciano da antidoto (cosiddette pratiche ‘debiasing’) alla disinformazione. E l’affair vaccini è un buon banco di prova. Un gruppo di psicologi italiani e scozzesi ha dunque cercato di capire i meccanismi sottesi a tanta testardaggine anti-scientifica, mettendo a confronto gli effetti di tre strategie di comunicazione vaccinale su un gruppo di 134 persone reclutate tra Italia e Scozia.
 
Le strategie di comunicazione: myth versus fact. La più semplice delle strategie di comunicazione è la cosiddetta ‘myths and facts’ che consiste nell’esporre i ‘miti’riguardanti vaccini per poi smontarli scientificamente. Tuttavia riesporre l’opinione pubblica al ‘mito’ che si vuole discreditare potrebbe paradossalmente contribuire a ‘consolidarlo’ nell’opinione generale, rendendolo ‘familiare’ alla memoria e quindi accettabile. Secondo altri tuttavia, esaminare un mito, ‘vivisezionarlo’ e smontarlo pezzo a pezzo con le evidenze scientifiche, contribuisce ad ‘aggiornare’ la memoria con nuove, corrette informazioni. Nel caso dei vaccini la questione è decisamente irrisolta, ma un esperimento del passato ha dimostrato che  le persone alle quali era stato consegnato un volantino ‘mito contro realtà’ riguardante la vaccinazione anti-influenzale, dopo appena mezz’ora confondevano il mito con la realtà dei fatti e alla fine apparivano meno propense a vaccinarsi rispetto a chi, il volantino ‘informativo’ non l’aveva letto.
 
Strategia ‘fact/icon box’. Un’altra tecnica consiste nel rappresentare le informazioni in forma visiva, con grafici ben disegnati che catturano l’attenzione e aiutano il lettore a processare efficacemente l’informazione, facilitandone il ricordo e riducendo la possibilità di ‘equivoci’. Tabelle (fact box) o icone (icon box) insomma fanno il lavoro meglio di paginate di testo (o peggio ore di dibattiti televisivi) e scolpiscono nella memoria messaggi chiari e inequivocabili.
 
Strategia ‘terrorismo psicologico’. Ci sono poi quelli che giocano la carta della paura (quando non del terrore) sottolineando i pericoli derivanti dalle malattie (es. cosa potrebbe succedere a chi non si vaccina). Una strategia che secondo studi del passato risulta di una certa efficacia nel veicolare messaggi di comportamenti puntuali (quali ad esempio il vaccinarsi), molto meno nel veicolare messaggi riguardanti comportamenti da adottare su un lungo periodo di tempo (es. correzione di stili di vita). Studi recenti hanno tuttavia sconfessato la validità di questo approccio. Proprio nel caso dei vaccini, usare le immagini di bambini malati per sottolineare i rischi delle mancate vaccinazioni, paradossalmente sembra portare acqua al mulino della falsa credenza vaccini/autismo. E’ quello che gli esperti chiamano il ‘danger-priming effect’. Altro esempio viene dai pacchetti di sigarette: quelle immagini terrificanti di malattie e morti non sembrano motivare i fumatori a smetterla con le bionde. Molto più efficace un packaging ‘anomino’ per questo scopo.
 
Sara Pluviano, Caroline Watt e Sergio Della Sala, psicologi dell’Università di Edinburgo e dell’Università  Suor Orsola Benincasa di Napoli hanno dunque messo a confronto queste tre strategie di comunicazione per valutarne le ricadute sulle convinzioni del legame vaccini/autismo e sugli effetti collaterali dei vaccini oltre che sull’intenzione di sottoporre a vaccinazione un figlio, subito dopo aver somministrato l’intervento correttivo e a distanza di 7 giorni (per valutarne possibili effetti negativi a distanza). I risultati di questo lavoro, pubblicato su Plos One,  dimostrano che le attuali strategie per correggere la disinformazione sui vaccini sono più o meno tutte inefficaci e spesso hanno ricadute opposte a quelle desiderate, rinforzando così le false credenze sui vaccini e riducendo dunque la propensione a vaccinare i figli.
 
Tra tutte, la strategia ‘mito e realtà’ è quella che più contribuisce a rafforzare la falsa credenza vaccini/autismo e questo conferma il fatto che, reiterare il ‘mito’ che si vorrebbe smantellare, non fa altro che radicarlo ancor più saldamente nella memoria. Meglio non parlarne proprio insomma, perché la gente tende a scambiare la reiterazione di un concetto, anche se appartenente al dominio del ‘falso mito’, come realtà (si chiama effetto ‘illusory truth’).
 
Anche i messaggi ‘terroristici’, quelli che mostrano poveri bambinetti rovinati dalle malattie che si sarebbero semmai potute evitare grazie ad un vaccino, più che a indurre alla ragione sembrano rafforzare la paura degli effetti collaterali dei vaccini, autismo compreso.
La meno dannosa delle tre strategie è risultata quella ‘visiva’, basata su tabelle/icone, ma anche questa è risultata inefficace nel correggere i comportamenti vaccinali.
 
Prima di lanciarsi in campagne di comunicazione sui vaccini insomma, sarebbe bene valutarne appieno le possibili ricadute. Secondo gli autori dello studio, ad esempio i messaggi con una connotazione ‘pro-sociale’ potrebbero avere addirittura ricadute negative. E comunque una strategia di comunicazione efficace e ‘a taglia unica’  probabilmente non esiste proprio. Il consiglio degli autori è dunque quello di confezionare delle campagne ‘su misura’, diverse, simultanee e reiterate per aumentare le possibilità di arrivare a target con dei messaggi correttivi e aumentare così l’accettazione delle vaccinazioni. E di non lanciarsi mai in campagne ‘epocali’, senza averne valutato appieno il possibile effetto boomerang. Magari sotto la guida di esperti di comunicazione.
 
Maria Rita Montebelli

28 agosto 2017
© Riproduzione riservata

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