Donne e lavoro. Salute a rischio se nel computo dei carichi non si tiene conto del lavoro domestico
di Maria Rita Montebelli
L’allarme viene da uno studio australiano che è andato a valutare in maniera realistica la soglia di sicurezza per la salute legata ai carichi lavorativi settimanali. Che è in genere uguale negli uomini e nelle donne. Una valutazione questa che scotomizza completamente il carico di lavoro domestico, in genere di pertinenza femminile, e che si va a sommare alle ore lavorate fuori casa. E’ dunque arrivato il momento di rivedere in maniera più aderente alla realtà la questione dei carichi lavorativi massimi per le donne. Senza favoritismi, ma applicando una vera par condicio che tenga conto anche del lavoro domestico.
13 FEB - Ci sono gli stakanovisti e i lavativi. Le due cose della gaussiana insomma. In mezzo c’è la gente comune, quella che lavora ‘il giusto’. E poi ci sono le donne, che lavorano tanto quanto gli uomini. Anzi di più. Perché nessuno tiene conto anche del carico derivante dal lavoro domestico e dagli impegni come
care giver, in genere di squisita pertinenza femminile.
Lavorare è un diritto sacrosanto, ma di lavoro ci si può anche ammalare, quando, come per tutte le cose si esagera. La scienza fissa in 48 la soglia massima di ore lavorative settimanali, superata la quale si rischia di recare pregiudizio alla salute. Ma come per la maggior parte degli studi scientifici questo calcolo è stato fatto sugli uomini. O meglio su quegli uomini che, finito di lavorare, rientrano in una casa dove c’è una moglie che si prende cura di loro, che prepara loro i pasti, tiene in ordine la casa, lava e stira le loro camicie.
E’ anche per questo – scrivono gli autori di uno studio pubblicato su
Social Science and Medicine – che questo calcolo un po’ ‘maschilista’ del limite delle 48 ore settimanali per tutti non regge più. Perché la forza lavoro è profondamente cambiata, avendo fatto spazio a tante donne, che certo non esauriscono la loro settimana lavorativa nelle 48 ore passate in fabbrica o in ufficio, perché tornate a casa continuano a lavorare per prendersi cura della loro famiglia.
La
par condicio qui non solo non ha senso ma, se applicata pedissequamente, rischia di introdurre una vera e propria
gender inequality a sfavore delle donne. Perché non tiene conto della mole di lavoro domestico che si va a sommare al monte ore lavorate fuori casa.
Chi si sta occupando dunque di tutelare la salute di queste lavoratrici-casalinghe, che di certo sforano alla grande il ‘muro’ delle 48 ore di lavoro settimanali, rischiando quindi di ammalarsi di lavoro? I ricercatori della
Australian National University, autori di questo studio, hanno cercato di dire la loro, facendo appello alla scienza.
In primo luogo, sono andati a rivalutare la soglia di sicurezza per la salute mentale dell’orario lavorativo, per appurare se esistano differenze di genere relative ai carichi di lavoro. Per farlo si sono avvalsi dei dati relativi ad un campione di australiani adulti (24-65 anni), intervistati nell’ambito della
Household Income Labour Dynamics of Australia Survey (per un totale di 3.838 uomini e 4.062 donne). Dalla ricognizione di questa vasta mole di dati, i ricercatori australiani sono giunti alla conclusione che la soglia di sicurezza per la salute mentale, in termini di ore di lavoro, si colloca in media intorno alle 39 ore di lavoro settimanale.
A questo punto sono andati ad esaminare in maniera disgiunta le soglie per i maschi e per le femmine, andando a considerare anche il carico e le costrizioni imposte dal lavoro domestico o di
care giver. E qui la differenza di genere è emersa forte e chiara. Il limite di ore lavorative (quelle fuori casa) settimanali che non mettono a rischio la salute è di 43,5 per i maschi e di 38 per le donne. Un
gender gap che si annulla solo quando si confrontano tra loro uomini e donne, con uguali carichi lavorativi e impegni domestici. Ma questo, va anche detto, non è esperienza comune. Né in Australia, né nel nostro emisfero. E’ in genere la donna che porta avanti la casa e la differenza di ‘resistenza’ al lavoro non è dunque legata alla biologia ma è spiegabile con la matematica. E’ infatti solo la somma delle ore lavorate fuori casa e di quelle impiegate nei lavori domestici a fare la differenza.
Questo studio – concludono gli autori - mette in luce i limiti delle attuali normative del lavoro che, se non corretti, rischiano di danneggiare e di portare pregiudizio in maniera sistematica alla salute della donna.
Maria Rita Montebelli
13 febbraio 2017
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