Essere poveri accorcia la vita di due anni. Lo studio su Lancet
Chi è più povero e non gode di una posizione discreta vive meno a lungo. Essere disagiati può costare fino a due anni di vita. Un calo dell’aspettativa dell’esistenza paragonabile a quella di chi fuma, beve, fa poca attività fisica o soffre di diabete. Lo rivela studio condotto da Lifepath e pubblicato sulla rivista The Lancet che ha seguito lo stato di salute di quasi due milioni di individui, in tutta Europa, per 13 anni. Ecco i risultati della RICERCA.
01 FEB - Essere poveri fa male alla salute, quasi quanto fumare, avere il diabete o condurre una vita sedentaria. Vivere in condizioni sociali ed economiche precarie accorcia la vita, in media, di 2,1 anni. Per avere un’idea più chiara di quanto un’esistenza ai limiti della sopravvivenza possa essere dannosa, basta guardare le altre statistiche: un fumatore ha un’aspettativa di vita più bassa di quasi 5 anni, un malato di diabete di quattro e una persona fin troppo sedentaria di due anni e mezzo. A rivelare questi numeri sconcertanti è stato uno studio condotto da Lifepath e pubblicato sulla rivista
The Lancet.
Un progetto finanziato dall’Europa
Questa ricerca rientra nell’ambito di un progetto, finanziato dalla Commissione Europea, che ha l’obiettivo di individuare i meccanismi biologici che stanno alla base delle differenze sociali nella salute. “Ci siamo sorpresi quando abbiamo scoperto che vivere in condizioni sociali ed economiche povere può costare caro quanto altri potenti fattori di rischio come il fumo, l’obesità e l’ipertensione - ha affermato
Silvia Stringhini, ricercatrice all’University Hospital di Losanna, in Svizzera, e coordinatrice dello studio - Queste circostanze possono essere modificate con interventi politici e sociali mirati, per questo dovrebbero essere incluse fra i fattori di rischio su cui si concentrano le strategie globali di salute pubblica”.
Uno studio che non ha precedenti
Nessuno scienziato aveva mai portato a termine, prima d’ora, uno studio che confrontasse l’aspettativa di vita fra persone appartenenti a diverse categorie socioeconomiche, evidenziando anche le differenze con quelle fasce di popolazione che hanno il vizio del fumo, soffrono di patologie croniche come il diabete o non praticano alcuna attività fisica.
“È noto che educazione, reddito e lavoro possono influire sulla salute, ma pochi studi avevano cercato di valutare quale fosse il peso effettivo di questi fattori. Per questo abbiamo deciso di confrontare l’impatto dello status socioeconomico sulla salute mettendolo a confronto con quello di sei fra i principali fattori di rischio” , ha spiegato
Mika Kivimaki, professore all’University College London e co-autore dello studio.
Il campione di riferimento dell’analisi
I ricercatori hanno analizzato la salute di più di 1,7 milioni di persone che vivono in tutta Europa, tra Gran Bretagna, Italia, Portogallo, Stati Uniti, Australia, Svizzera e Francia. Per inquadrare ogni partecipante in un preciso status socioeconomico gli studiosi hanno fatto riferimento all’ultimo impiego lavorativo, al momento dell’ingresso nello studio. La vita di queste persone è rimasta sotto la lente degli scienziati per 13 anni. I dati ottenuti da questa lunga fase di osservazione sono stati analizzati con appositi metodi statistici e confrontati con quelli relativi ad alcuni dei principali fattori di rischio inclusi nel piano strategico globale dell’Oms chiamato “25x25”.
Le conclusioni dei ricercatori
Un basso livello socioeconomico può essere un efficace indicatore del calo nell’aspettativa di vita. Ma questo, spesso, non è considerato dalla classe politica che dovrebbe intervenire con azioni specifiche. Estendere la prevenzione anche a fattori come il lavoro o l’educazione infantile, può migliorare la salute globale. “Lo status socioeconomico è importante perché include l’esposizione a diverse circostanze e comportamenti potenzialmente dannosi, che non si limitano ai classici fattori di rischio come fumo o obesità, sui quali si concentrano le politiche sanitarie – ha concluso
Paolo Vineis, professore all’Imperial College London e coordinatore di Lifepath - L’obiettivo principale del nostro progetto è quello di capire attraverso quali processi biologici le disuguaglianze sociali si traducono in disuguaglianze per la salute. Così facendo potremo fornire accurate prove scientifiche a istituzioni sanitare e decisori politici, che a loro volta potranno migliorare l’efficacia delle loro strategie di intervento sulla salute pubblica”.
01 febbraio 2017
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