“Il cancro non è un carillon”. Il nuovo libro di Ivan Cavicchi e Maria Giuseppina Sarobba
di Maria Rita Montebelli
È un viaggio quasi dantesco all’interno di questa patologia, quasi un inno alla complessità, quello che propone questo libro di Cavicchi, un epistemologo, scritto insieme all’oncologa Sarobba. Il risultato è un saggio che aiuta a rileggere questa malattia con occhi nuovi, rifiutando e mettendo in discussione molte delle certezze granitiche e lo ‘scontato’ anacronistico che riguarda quest’argomento
24 OTT - Il cancro non è un carillon, un ingranaggio che i medici-meccanici possono riparare come fossero robot, in modo uguale e standardizzato per tutti, portati per mano da una linea guida o da una consensus. La nostra è un’epoca improntata ad una grande complessità, dove fare medicina, o meglio fare una buona medicina, è sempre più un delicato esercizio di equilibrismo, in bilico tra mille istanze e tanti limiti. Il tempo da dedicare al paziente, alla persona che alberga un tumore, ma che non è una sineddoche, né una tautologia della sua malattia; le istanze economiche, il vissuto del paziente nel quale viene calata dall’alto una diagnosi impegnativa, di ‘finitudine’. Insomma il tumore è molto più di quello che vediamo, perché sempre più in questo campo ‘l’essenziale è invisibile agli occhi’, come direbbe Antoine de Saint-Exupéry.
Ed è un viaggio quasi dantesco all’interno di questa patologia, quasi un inno alla complessità, quello che propone ‘
Il cancro non è un carillon’, opera della maturità di
Ivan Cavicchi, un epistemologo, scritta insieme all’oncologa
Maria Giuseppina Sarobba.
Il risultato è un saggio che aiuta a rileggere questa malattia con occhi nuovi, rifiutando e mettendo in discussione molte delle certezze granitiche e lo ‘scontato’ anacronistico che riguarda quest’argomento. E questo perché “il cancro – scrivono gli autori – non è una spiaggia con un solo granello, né un carillon che suona sempre la stessa musica”.
Un saggio ambizioso che mira non solo ad aggiornare i concetti di cancro e di malattia, ma anche l’oncologia e gli oncologi. Che farà di certo sollevare qualche sopracciglio, scrollare con sufficienza qualche spalla, ma si spera anche portare a riflettere sullo status quo dell’oncologia, ormai inadeguato e dépassé, tante persone, e non necessariamente in camice bianco.
Cavicchi inizia col mettere in discussione l’attuale apparato concettuale dell’oncologia, proponendone un’idea più aderente alla realtà e adeguata alla sua complessità. Si passa quindi al processo di conoscenza del cancro, che non può prescindere dallo studio del paziente e della sua complessità. Da questa profonda ricognizione scaturisce infine la proposta di un’oncologia a orientamento pragmatico, che valorizza il risultato del trattamento, in rapporto alla persona e alla relazione terapeutica.
E quel che appare chiaro è che il cancro è un mare imprevedibile nel quale l’oncologo non può affidarsi esclusivamente a rotte predeterminate, ma deve avere la capacità di navigare a vista e di aggiustare la rotta in base alle necessità, se vuole arrivare alla meta.
“E’ arrivato il momento – scrive Cavicchi – di ridefinire i rapporti tra cancro, malato di cancro e oncologo, ossia tra realtà, conoscenza e modo di conoscere”. E’ necessario cioè passare dalla nozione (oggi l’oncologia è secondo l’autore una disciplina nozionista), alla ‘cognizione’ del cancro.
Per il paziente il cancro è una minaccia esistenziale, uno tsunami nella sua vita familiare e lavorativa, intimamente connesso alla paura in tutte le sue declinazioni possibili, dalla sofferenza alla durezza delle terapie, alla paura della morte, ma più ancora al terrore immanente del distacco dagli affetti familiari.
Per l’oncologo, lottare contro il cancro rappresenta un’impresa speciale e di alto valore sociale. Ideali che vanno spesso a cozzare con la frustrazione, con il burn out, con il senso di inadeguatezza che la frequentazione quotidiana con la sofferenza e con il fallimento terapeutico possono provocare, soprattutto se non si è supportati da un adeguato training in psico-oncologia e da un corso comunicazione medico-paziente, skills che ancora latitano nei curriculum delle facoltà di medicina.
Partendo da queste posizioni apparentemente così distanti è necessario costruire una relazione, anzi una ‘oncologia delle relazioni’ che consenta al medico di entrare in sintonia con il proprio paziente e di renderlo compartecipe e co-protagonista del processo di cura.
Un testo difficile ‘Il cancro non è un carillion’, si potrebbe pensare ‘di nicchia’ per la complessità dei suoi contenuti e delle sue argomentazioni, che si apre però a più livelli di lettura, dove ognuno - un paziente, un medico, un filosofo, un decisore della cosa pubblica – potrà trovare elementi di arricchimento e di riflessione.
Protagonista è la complessità del cancro, talmente intriso di singolarità, di eccezioni, di particolare da non poter essere compreso e compresso in una classificazione, almeno non in una di quelle alle quali siamo abituati. Perché il cancro, giorno dopo giorno, incarna sempre più un concetto di patologia ‘singolare-plurale’ per antonomasia, che si scontra con le necessità operative del medico e con le effimere certezze offerte da una classificazione o da una linea guida di trattamento.
Ma l’oncologo, quello bravo almeno, non può più accontentarsi di applicare in maniera meccanicistica un trattamento, come linea guida comanda appunto, un sillogismo terapeutico (se il paziente ha questo tumore e io applico questo trattamento, allora avrò la guarigione), che potrà avere successo o meno. E’ necessario comprendere che il fallimento della terapia dipende dal fatto che si parte a volte dai presupposti sbagliati, non avendo a disposizione il quadro completo di tutti gli elementi di giudizio e di comprensione di quello specifico tumore, sviluppatosi in quella persona particolare.
Di fronte ad un fallimento terapeutico dunque non vanno scomodare le ‘bugie’ del cancro; non è lui che non mantiene le promesse di guarigione a fronte di una cura, ma le nostre conoscenze troppo incomplete, gli pseudo-sillogismi sulle aspettative di un risultato terapeutico. E su tutto, ancora una volta, domina la singolarità del malato di cancro, che rappresenta indubbiamente un problema per l’oncologo.
A meno che l’oncologia, dopo anni di carillon, non diventi sempre più un’arte da bottega rinascimentale, dove la cura viene cesellata sul singolo paziente, seguendo certamente le linee guida, ma calandola nello specifico di quella persona e del ‘suo’ tumore. Che poi significa navigare a vista, senza essere presi per mano dal meccanicismo rassicurante della evidence based medicine, che si fonda sul presupposto, ormai effimero e anacronistico, di conoscere tutte le ‘evidence’ relative a quel cancro. Condizione invece calata nella realtà singolare di quel determinato paziente, che non è fatto di sola malattia ma anche e soprattutto di vita, di aspettative, di esperienze destinate a improntare e condizionare la sua accettazione di malattia, di ‘finitudine’, la sua compliance ai trattamenti.
Tutte ‘evidenze’ queste che nessuna linea guida potrà mai contemplare, ma che un bravo ‘nocchiero’, capace di navigare a vista, può e deve includere nella costruzione del suo algoritmo terapeutico. In questo senso l’oncologo che naviga a vista diventa ‘autore’ della sua opera che non è un mero prodotto (un ciclo di terapia) frutto di indicazioni a priori, ma un’esperienza e un risultato. “L’approccio pragmatico che proponiamo – scrive Cavicchi – adotta l’intenzionalità dell’oncologo come una risorsa d’importanza almeno pari alle conoscenze scientifiche, ma obbliga l’oncologo alla ragionevolezza, al buon senso, alla coerenza”.
E così l’oncologia, nel suo calarsi sempre più nelle profondità del ‘singolare’, diventa di giorno in giorno più affine alla geometria frattalica, discostandosi al contempo da un passato più simile ad una geometria euclidea dalle forme semplici e lineari e dai concetti schematici e generalizzabili. Al contempo diventa urgente e necessario ridefinire i contorni e gli elementi costitutivi di un neo-umanesimo di una relazione terapeutica in grado di occuparsi anche di quello che c’è intorno al cancro, cioè della persona nella sua interezza, nel contesto dei suoi rapporti interpersonali, che si declinano in base al suo livello di educazione, alle sue possibilità economiche, alla sua esperienza personale col male.
Prendere a bordo nei processi decisionali tutto questo è opera decisamente complessa, che richiede tempo, parola chiave oltre che l’elemento più prezioso e carente della relazione medico-paziente, fondamentale, come lo è sempre stata, ma sottolineata all’infinito da questo testo. Che non è un filosofeggiare colto e astratto sull’essenza stessa della vita, della malattia e del significato di morte (bellissima la citazione di Jean-Paul Sartre “La morte diviene il senso della vita come l’accordo conclusivo della melodia” ), ma il suggerimento di una direzione da prendere, di un metodo da applicare per riscrivere, nell’era della medicina di precisione, l’oncologia.
Un’ambizione che di certo eliciterà non pochi anticorpi, se non delle vere e proprie reazioni di rigetto, perché cosa c’è di più scomodo del veder messa in discussione una certezza assoluta ed essere spinti a ragionare sull’inadeguatezza di quanto fino ad oggi abbiamo dato per scontato?
Pagina dopo pagina questo testo mette in crisi il sistema oncologia, disseziona in maniera chirurgicamente colta le sue inadeguatezze, evidenzia la dimensione surreale di un metodo che, come nel celebre quadro di Magritte propone di applicare un trattamento standard alla ‘pipa’ che nel quadro però presenta la didascalia ‘ceci c’est pas une pipe’ (questa non è una pipa).
E questa forse non è altro che la rivoluzione della medicina di precisione, di cui tutti parlano come di un evento collocato in un futuro remoto ma che è invece già presente, soprattutto in oncologia.
Certo, abbandonare la comoda e rassicurante melodia del carillon, del sillogismo terapeutico, dell’applicare in modo meccanico un algoritmo terapeutico infilandolo a forza nella singolarità di un paziente e ‘(ri)cominciare invece a ragionare, navigando a vista, cesellando ogni volta la terapia sulle tante peculiarità espresse da un paziente, è un esercizio scomodo e, se vogliamo, anche sconcertante. Non solo complica la vita professionale del medico, ma richiede una rivoluzione a tutti i livelli: da un nuovo disegno degli studi clinici, destinati a produrre evidenze diverse da quelle alle quali la statistica dei grandi numeri ci ha abituato, ad un nuovo modo di fare medicina, sempre più calata nel neo-umanesimo del singolare e sempre più lontano dall’anacronismo del tumore ‘tipico’, desunto da una moltitudine astratta di pazienti perfetti, che non hanno riscontro nella realtà dei pazienti che il medico vede tutti i giorni.
Ma la rivoluzione, che lo si voglia o no, è cominciata. Non serve contrastarla, costruire barricate con i pezzi dell’EBM. Meglio assecondare il processo di cambiamento, studiarselo a fondo, per cercare di governarlo senza esserne travolti.
Per questo vale la pena dedicare qualche ora ai pensieri di Ivan Cavicchi.
Maria Rita Montebelli
24 ottobre 2016
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