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Epatite C. Università Tor Vergata: in Italia quasi un milione di malati. Ma solo il 45% è noto. Oltre 50% casi al Sud. Eradicazione possibile in 5 anni ma solo avviando screening di massa e curando tutti i sieropositivi. Trattare solo i più gravi non garantisce sconfitta totale del virus

di M. Andreoni, F. Spandonaro, C. Sarrecchia, L. Mancusi, D. d'Angela

I dati rilevati grazie a un modello su "misura" per l'Italia messo a punto da un team multidisciplinare dell'Ateneo romano quale contributo alle scelte sanitarie da adottare. Anche perché il dibattito di queste ultime settimane sta assumendo toni e contenuti sempre più “politici”, allontanandosi dalle questioni sostanziali. Che rimangono quelle dell’accesso e dell’efficacia ed efficienza degli interventi sanitari pubblici

04 GIU - Il dibattito sull’accesso ai farmaci anti HCV sembra essersi (ri)acceso nelle ultime settimane, ma sembra anche evidenziarsi il rischio che assuma toni e contenuti sempre più “politici”, allontanandosi dalle questioni sostanziali, che rimangono quelle dell’accesso e dell’efficacia ed efficienza degli interventi sanitari pubblici.
 
Il rischio è concreto in quanto, sin dall’inizio della vicenda, il dibattito si è sviluppato in carenza di una stima condivisa del carico endemico dell’HCV: basti ricordare il “balletto” delle cifre relative ai pazienti potenzialmente eleggibili, che ha dominato la fase precedente la negoziazione del prezzo di Sofosbuvir. Ma evidentemente il numero di pazienti eleggibili è un dato essenziale per prendere decisioni davvero consapevoli.
 
Le uniche certezze condivise sono che l’Italia, unitamente ai Paesi dell’Europa mediterranea, sebbene con un picco più elevato, presenta una prevalenza della patologia molto più significativa rispetto al resto dei Paesi occidentali, conseguenza di un “modello epidemiologico” differente. Nel resto dell’Occidente la prevalenza dell'infezione da HCV è più alta nei giovani e negli adulti che nei soggetti più anziani, mentre è vero il contrario in Italia, suggerendo per il nostro Paese un significativo effetto di coorte.
 
Qualche tentativo di stima scientifica c’è stato, ma a nostra conoscenza viziato proprio dal trasferimento alla situazione italiana di strutture e dinamiche epidemiologiche così fortemente difformi dalla nostra realtà.
 
Su una base informativa epidemiologica di per sé fragile, si sono poi anche innestate ipotesi di impatto finanziario, e qualche volta economico, che a ben vedere contengono un ulteriore elemento discutibile: quasi nessuna, infatti, esplicita quale sia la ratio del modello di intervento adottato e, quindi, l’obiettivo perseguito.  In altri termini, avanzare stime di impatto senza avere prima chiarito se l’obiettivo (di sanità pubblica) sia l’eradicazione della patologia (e in tal caso in quanti anni), ovvero la minimizzazione dell’impatto finanziario portato dalle terapie, ovvero la massimizzazione dell’efficacia o ancora la massimizzazione della costo-efficacia … equivale a dare cifre “incontestabili” (il che è l’antitesi dell’approccio scientifico).
 
Onde evitare di rimanere nelle “sabbie mobili”, ci siamo determinati a provare a fornire un supporto alle decisioni, ovviamente senza pretesa alcuna di avere la capacità di produrre i “numeri veri”, ma solo quello di produrre stime basate su un approccio scientifico e, quindi, in caso contestabile.
 
A tal fine, siamo ripartiti dall’origine del problema, elaborando un modello di stima del carico endemico dell’HCV in Italia; e quindi lo abbiamo corredato di un modello probabilistico atto a simulare gli effetti (tempo di eradicazione, costi, esiti) scegliendo scenari alternativi di intervento pubblico.
 
I modelli sono attualmente in fase di sottomissione a riviste scientifiche per la loro pubblicazione, ma intanto l’anticipazione di alcuni elementi ci sembra possa fornire un primo contributo al dibattito.
 
Nel modello abbiamo cercato di dare il giusto peso alla diversa e peculiare eziologia dell’HCV; in Italia, rispetto agli altri Paesi Occidentali dove risulta prevalente il contributo della tossicodipendenza, le infezioni sono in larga misura il prodotto della carenza/impossibilità di controlli e prevenzione degli anni ‘50 e ‘60.
 
Questo implica che abbiamo implementato un modello che, a partire da una ripartizione per anno di nascita in coorti omogenee della popolazione (e per quanto a nostra conoscenza si tratta di un approccio non ancora adottato), facesse emergere nel tempo una verosimile evoluzione della patologia sia in termini quantitativi (prevalenza) che qualitativi (gravità). Per ogni singola coorte è stata stimata la prevalenza con un modello ad hocdi poolig a partire da una revisione sistematica degli studi di popolazione effettuati in Italia, anche per area geografica.
 
L’approccio ci permette di apprezzare come in Italia si debba far fronte ad una distribuzione dei casi prevalenti significativamente diversa dagli altri contesti geografici, e in particolare molto “sbilanciata” verso le età avanzate e le Regioni meridionali.
 
Il modello stima che ci siano oggi nel nostro Paese quasi un milione (circa 998.000) di casi di HCV RNA positivi di cui appena il 45% (circa 435.000) noti al sistema sanitario.
Le conseguenze di politica sanitaria di una struttura di prevalenza di questo tipo sono molte: la più evidente è che trattare i pazienti più gravi (metavir score almeno pari ad F4) implica trattare per oltre il 64% over 75 e per oltre il 33% over 80, con tutte le ovvie conseguenze del caso in termini di beneficio per la Società di questa strategia.
 
I nostri risultati suggeriscono anche che trattare tutti, come intende fare la Toscana (per inciso il numero di casi emersi prodotto dal nostro modello per la Toscana è praticamente sovrapponibile a quelli dichiarato di recente dalla Regione, e questo ci conforta) è certamente più efficiente, ma non implica comunque l’eradicazione della patologia, in quanto i casi emersi e quindi noti sono nell’ordine del 44% dei casi prevalenti; è quindi ipotizzabile una progressiva emersione della casistica ad oggi misconosciuta.
 
L’eradicazione della patologia potrebbe (sempre nei limiti della capacità predittive del nostro modello) essere un obiettivo a 5 anni immaginando uno screening di massa svolto in 5 anni in grado di far emergere almeno il 70% della casistica ad oggi misconosciuta; in assenza di strategie di screening e presupponendo che tutti gli emersi vengano trattati, l’eradicazione richiederebbe almeno 30 anni.  Sicuramente la strategia finalizzata al trattamento dei soli casi più gravi non è in grado di garantire l’eradicazione della patologia.
 
Nel Meridione più del 50% dei casi. Il dibattito è poi del tutto silente sull’impatto equitativo derivante dal fatto che solo nel meridione, sempre secondo le nostre stime, si concentra oltre il 50% della casistica con una prevalenza del 30% superiore a quella del centro-nord, con tutte le evidenti conseguenze anche finanziarie, del caso (1 caso di HCV su 43 abitanti contro 1 caso su 63).
 
Ripartendo da una corretta distribuzione dei casi prevalenti (che il nostro modello dà per genere, età, genotipo e metavir score) è possibile provare a ragionare oltre che di sostenibilità, anche di esiti delle strategie adottate, e non ultimo anche di appropriatezza degli interventi già in essere.  Ad esempio, uno degli argomenti che maggiormente sembra avere supportato la tendenza a voler riservare i nuovi farmaci ai pazienti più gravi sembra essere quello dei risparmi ottenibili prevenendo epatocarcinomi e trapianti… ma che il primo effetto si possa ottenere trattando i pazienti più gravi sembra discutibile, come anche andrebbe discussa la quota di trapianti evitati su pazienti molto anziani e presumibilmente comunque compromessi.
 
In conclusione forse sarebbe necessario riportare il dibattito sulla valutazione delle strategie di sanità pubblica, come suggeriscono le riflessioni in itinere in alcuni altri Paesi, che avendo iniziato le terapie prima di noi, si interrogano ora sulla efficacia e anche sull’efficienza del trattare i pazienti più gravi, e tendono a spostare progressivamente l’attenzione sulle strategie di emersione della patologia.
 
Prof. Andreoni Massimo
Professore ordinario Malattie Infettive Università di Roma Tor Vergata e Presidente SIMIT
 
Prof. Spandonaro Federico
Professore aggregato Università di Roma Tor Vergata e Presidente CREA Sanità
 
Prof. Sarrecchia Cesare
Professore aggregato Università di Roma Tor Vergata
 
Dr.ssa Mancusi Letizia
Ricercatore CREA Sanità (Università di Roma Tor Vergata)
 
Ing. d’Angela Daniela
Ricercatore CREA Sanità (Università di Roma Tor Vergata)

04 giugno 2015
© Riproduzione riservata

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