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Malattia di Crohn. Una nuova prospettiva nella terapia dalla ricerca italiana

di Maria Rita Montebelli

I risultati di uno studio di fase II sul mongersen, una nuova terapia orale, frutto della ricerca italiana coordinata dall'Università Tor Vergata l quale ha partecipato anche la Cattolica, suggeriscono la possibilità di una rivoluzione prossima ventura nel trattamento delle malattie infiammatorie intestinali. La ricerca è pubblicata sul New England Journal of Medicine

19 MAR - E’ una ricerca tutta made in Italy ed ha le carte in regola per entrare nello storia della medicina, perché sembra preludere alla consacrazione di una nuova classe di trattamento per la malattia di Crohn, quella degli SMAD7-inibitori, completamente diversa da quanto visto finora.
 
Il New England Journal of Medicine pubblica oggi uno studio di dose finding , nel quale il mongersen è stato somministrato al dosaggio di 10, 40, 160 mg versus placebo, per due settimane.L’endpoint  primario era la remissione clinica a 15 giorni, definita come score del Crohn Activity Disease Index (CDAI) inferiore a 150, con mantenimento della remissione per almeno 2 settimane. Endpoint secondario dello studio era la risposta clinica (definita come riduzione di 100 punti nel CDAI score) a 28 giorni.
 
La percentuale di pazienti che ha centrato l’endpoint primario è stata del 55% nel gruppo trattato a 40 mg e del 55% in quello a 160 mg, rispetto al 10% del gruppo placebo e al 12% del gruppo trattato con i 10 mg.
 
Il tasso di risposta clinica è risultato significativamente superiore tra i pazienti trattati con mongersen al dosaggio di 10 mg (37%), 40 mg (58%) o 160 mg (72%), rispetto al gruppo di controllo (17%). Eccellente anche il profilo di sicurezza del nuovo farmaco. La maggior parte degli effetti indesiderati infatti è risultato correlato alle complicanze e ai sintomi del morbo di Crohn.
 
"La soppressione di SMAD7, un inibitore dell’attività del Transforming Growth Factor-beta, il più potente immunosoppressore intestinale  - spiega Giovanni Monteleone, Ordinario di Gastroenterologia, Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’, inventore del farmaco e coordinatore dello studio - consente di ripristinare nell’ intestino dei pazienti con malattia di Crohn i normali e fisiologici meccanismi anti-infiammatori operanti nei soggetti sani. La sperimentazione clinica, ha coinvolto 16 centri in Italia ed uno in Germania ed è stata condotta in 166 pazienti con malattia di Crohn attiva. L’ efficacia clinica del trattamento, durato soli 14 giorni, è documentata dal dato che oltre il 60% dei pazienti trattati ha raggiunto uno stato di completa remissione clinica, poi mantenuta fino al termine dell’ osservazione, durata 3 mesi".
 
“Il mongersen – spiega un altro autore dello studio, Alessandro Armuzzi, responsabile della IBD Unit CIC-Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente del comitato clinico della European Crohn Colitis Organisation - è un oligonucleotide antisenso a somministrazione orale, che va ad interferire con la cascata del TGF-beta 1, bloccando SMAD7, una molecola iperespressa nei processi di infiammazione cronica come il Crohn. Questo meccanismo, che è del tutto peculiare, ha portato allo sviluppo di questa molecola, il mongersen, somministrabile per via orale e che è stata testata in questo studio di fase II su 160 pazienti con malattia di Crohn steroido-dipendente o steroido-resistente, localizzata nell’ileo terminale o nel colon destro. I risultati sono stati eclatanti, nel senso che dopo appena 15 giorni di terapia, l’endpoint primario è stato raggiunto nel 65% dei pazienti trattati al dosaggio più elevato contro il 10% del placebo ”. 
 
"Lo studio appena pubblicato  - dichiara Francesco Pallone, Ordinario di Gastroenterologia, Direttore della Cattedra di Gastroenterologia e del Dipartimento di Medicina del Policlinico Universitario Tor Vergata - rappresenta un tipico esempio di trasferimento delle acquisizioni scientifiche dal laboratorio di ricerca al letto del malato attraverso un lungo percorso di ricerca traslazionale che è attività tipica di un Ospedale Universitario.”
 
“Il morbo di Crohn – ricorda in un editoriale pubblicato sul New England Severine Vermeire, dipartimento di Gastroenterologia, University Hospitals, Leuven, Belgio) è una patologia caratterizzata da recidive infiammatorie che portano a ulcere nell’ileo e nel colon; in oltre metà dei pazienti risulta interessata anche la regione perianale” Come descritto da Burrill Crohn nel 1932, la malattia può portare a stenosi del lume intestinale e alla formazione di fistole.
 
Obiettivo del trattamento della malattia è la guarigione delle ulcere, “resa possibile – spiega l’editorialista – dalla somministrazione delle terapie biologiche contro il fattore di necrosi tumorale (TNF) alfa. Purtroppo, dopo due decadi dall’introduzione in clinica di queste terapie, non si è assistito ad una convincente riduzione nella progressione della malattia o dei tassi di ricorso alla chirurgia. Una possibile spiegazione di questo fenomeno sta nel fatto che l’uso degli anti-TNF alfa, come infliximab o adalimumab, viene avviato quando la malattia data ormai da tempo. Un’altra possibile spiegazione va ricercata nel fatto che potrebbero giocare un ruolo nel mantenimento della cascata infiammatoria, anche altri meccanismi, diversi dal TNF”.
 
Nella patogenesi del Crohn potrebbe infatti giocare un ruolo anche il deficit dei meccanismi controregolatori, come il TGF (transforming growth factor)-beta 1, che inibisce la proliferazione e differenziazione delle cellule T, oltre a ridurre l’attivazione dei macrofagi e la maturazione delle cellule dendritiche. E nei pazienti con morbo di Crohn, la cascata intracellulare del TNF-beta 1 è bloccata dalla proteina SMAD7.
 
Il mongersen, un oligonucleotide antisenso, si lega alla proteina SMAD7 e causa la degradazione dell’RNA messaggero della SMAD7; in questo modo ripristina il signalling del TGF-beta 1 e riduce la produzione di citochine pro-infiammatorie.
 
“I tassi di remissione tra il 55 e il 65% dei dosaggi più alti di mongersen utilizzati in questo studio – sottolinea la Vermeire - non hanno precedenti, se confrontati con quelli riportati dai grandi studi di induzione con l’infliximab (nel trial SONIC, la remissione clinica senza glucocorticoidi alla sesta settimana è stata del 32,5%), con l’adalimumab (36% di remissione clinica a 4 settimane nel trial CLASSIC-I) e più di recente con il vedolizumab (14,5% di remissione clinica a 6 settimane e 39% a 54 settimane nel trial GEMINI 2).”
 
Un altro punto molto interessante scaturito dallo studio di Monteleone è stata la durabilità dell’azione del mongersen, somministrato per appena due settimane e con remissioni cliniche ancora osservabili a 3 mesi. “Questo dato sembra in contrasto – commenta la Vermeire – con la rapida recidiva dei sintomi, osservata alla sospensione di tutti i farmaci antinfiammatori comunemente usati in questa malattia. E’ possibile dunque che lo sblocco della cascata del TGF-beta 1 con brevi cicli di mongersen, possa essere sufficiente a ripristinare i processi immunoregolatori e a condurre ad una remissione duratura. Se confermata da studi futuri, la durabilità dell’effetto del mongersen non avrebbe precedenti e potrebbe rappresentare un primo passo verso la cura di questa malattia”.
 
"I risultati pubblicati oggi necessitano delle dovute conferme, e per questo - conclude Monteleone - nuovi studi di Fase III, coinvolgenti un maggior numero di pazienti, stanno per essere avviati in tutto il mondo". 
 
Il mongersen, molecola frutto della ricerca italiana (è stata sviluppata da Giuliani), lo scorso autunno è stato acquisito da Celgene per oltre 700 milioni di dollari; un ‘affare’ secondo gli analisti finanziari da 2,6 miliardi di dollari.
 
Maria Rita Montebelli

19 marzo 2015
© Riproduzione riservata

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