Alzheimer. A breve disponibile un esame del sangue per la diagnosi
di Maria Rita Montebelli
Molto interessanti i risultati di uno studio americano pubblicati su Neurology. Attraverso la determinazione di un pannello di proteine circolanti, correlate a questa malattia neurodegenerativa, è possibile valutare con una certa accuratezza la presenza o meno nel cervello di beta amiloide, causa della malattia. Il tutto attraverso un prelievo di sangue
14 MAR - La possibilità di fare diagnosi di Alzheimer, precocemente e attraverso un semplice esame del sangue è il sogno rincorso dai ricercatori di tutto il mondo. E un lavoro appena pubblicato su
Neurology fa sperare che i tempi per la messa a punto di un simile test siano ormai maturi.
L’idea è quella di individuare dei biomarcatori, in pratica una ‘firma’ proteica di una certa malattia, nel sangue, così da poter riconoscere sul nascere la presenza di una patologia. Nel caso dell’Alzheimer, il carattere distintivo della malattia a livello cerebrale è l’accumulo di sostanza amiloide, una sorta di ‘spazzatura’ cellulare che va ad accumularsi nel cuore delle cellule fino a farle morire.
Liana Apostolovae colleghi della
University of California di Los Angeles (UCLA) sono andati a vedere se, con un particolare esame del sangue, fosse possibile dimostrare la presenza di beta amiloide nel cervello, la quintessenza di questa malattia neurodegenerativa.
Attualmente la malattia può essere diagnosticata con certezza solo esaminando il tessuto cerebrale dopo la morte, in sede autoptica; in vita, è solo possibile basarsi su biomarcatori e sintomi cognitivi presentati dal paziente, quali la perdita di memoria.
Negli ultimi anni sono stati messi a punto due metodi per determinare la presenza di beta amiloide, ma entrambi presentano molti svantaggi. In un caso, la diagnosi viene fatta sul liquido cerebro-spinale, ottenibile solo mediante una puntura lombare, procedura invasiva non priva di rischi, quali un danno al midollo spinale. L’altro metodo, la PET-amiloide, sebbene efficace, espone a molte radiazioni, è costosa e in genere non rimborsata. Per questo è disponibile in pochissimi centri degli Stati Uniti.
“Un biomarcatore ematico di questa malattia – sostiene
Liana G. Apostolova, direttore del laboratorio di
neuroimaging presso il
Mary S. Easton Center for Alzheimer's Disease Research dell’UCLA - avrebbe il notevole vantaggio di essere sicuro, ragionevolmente costoso e facile da effettuare anche su vasti gruppi di persone. Questo avrebbe naturalmente un notevole impatto sia nella pratica clinica che all’interno dei trial clinici”.
I ricercatori californiani per il loro studio hanno messo a punto una ‘firma’ proteica di questa malattia, rilevabile nel sangue e costruita mettendo insieme una serie di proteine, note per essere associate all’Alzheimer; il risultato dell’esame del sangue è stato confrontato con i dati di
neuroimaging (una risonanza magnetica strutturale) e con il risultato dei test neuropsicologici.
Utilizzando dei campioni ematici e altri dati provenienti da pazienti con lievi alterazioni cognitive, arruolati nell’
Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative (una ricerca frutto di una
partnership pubblico-privata avviata nel 2004), i ricercatori dell’UCLA hanno dimostrato che il loro esame del sangue è in grado di predire la presenza di amiloide nel cervello, con una certa accuratezza.
“il pannello di proteine del sangue che abbiamo messo insieme – spiega la Apostolova – consente di individuare questa patolgoia in maniera sicura e minimamente invasiva; dobbiamo migliore ulteriormente il potere di questa ‘firma’, introducendo altri parametri correlati alla malattia, ma i nostri risultati dimostrano che il test è fattibile e potrebbe dunque essere messo sul mercato a breve”.
Sebbene non esistano al momento trattamenti in grado di arrestare la progressione della malattia e meno che mai di ‘guarire’, un test di questo genere consentirebbe di fare diagnosi precoce e di indirizzare tempestivamente questi pazienti verso una serie di trattamenti di supporto, migliorando così le loro
chance di rispondere meglio agli attuali trattamenti e a quelli futuri.
Questo test avrà un impatto notevole anche sulle sperimentazioni cliniche. “Da quando è stata introdotto la PET-amiloide – spiega Apostolova – abbiamo scoperto che il 25-30% dei pazienti arruolati come Alzhemier in realtà non hanno questa malattia. E questo naturalmente rende molto difficile valutare gli effetti delle terapie al vaglio”.
Maria Rita Montebelli
14 marzo 2015
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