Lsd, ecstasy e marijuana. Gli scienziati americani chiedono di poterle “riusare” a fini scientifici per la cura delle malattie mentali
di Maria Rita Montebelli
Bandite non solo dall’uso personale, ma anche dai laboratori di ricerca dove da almeno 40 anni non possono più entrare. Ma adesso gli scienziati chiedono di abbattere questo divieto derubricandole dalla Schedule I per farle approdare almeno ad una lista meno restrittiva come la Schedule II e permettere così di testarle all’interno di trial clinici
21 GEN - LSD, marijuana,
ecstasy, psilocibina potrebbero aiutare gli scienziati a trovare nuovi percorsi di terapia per le malattie mentali? E’ quanto sostiene un editoriale pubblicato su
Scientific American di Febbraio, ricordando che non è più il momento di fare gli ‘schizzinosi’, nemmeno di fronte alle droghe, perché la ricerca su depressione, autismo o schizofrenia è arrivata al capolinea con gli attuali filoni di ricerca.
A soffrire di patologie psichiatriche gravi sono 14 milioni di Americani adulti (in Italia si stima che la prevalenza
lifetime di tutti i disturbi mentali nella popolazione generale sia superiore al 18%), il che significa che c’è un bisogno urgente e disperato di dare risposte innovative a questa domanda. Una necessità che si scontra tuttavia con un contesto normativo molto restrittivo, che si limita a dichiarare
off-limits tutte le droghe d’abuso, impedendo così di utilizzarle anche in contesti di ricerca.
Eppure a metà degli anni ’60 era tutto un fiorire di pubblicazioni su come ad esempio l’LSD potesse essere utilizzata per rendere più efficace la psicoterapia, mentre nella decade successiva lo stesso ruolo veniva attribuito alla MDMA (
ecstasy). Senza parlare poi della marijuana – l’unica droga illegale di recente in parte sdoganata, per scopi medici, ma non utilizzabile in ambito di ricerca - utilizzata da secoli in un vastissimo
range di terapie, dalla malaria ai reumatismi. Lo sbarramento inderogabile all’impiego delle droghe nei laboratori di ricerca risale agli anni ’70, quando il
Controlled Substances Act liquidò tutto questo fermento di studi con l’affermazione che queste sostanze ‘al momento non avevano alcun impiego medico riconosciuto’ ed esiliandole nell’infame lista delle sostanze illegali (Schedule I). Con il tempo, tre trattati delle Nazioni Unite hanno esteso il loro esilio praticamente a tutto il resto del mondo.
Bandire queste droghe da laboratori e trial clinici perché non utilizzate nella pratica clinica – sottolinea l’editoriale di
Scientific American - ha impedito di fatto alla ricerca di proseguire il suo corso.
E le domande rimaste senza risposta non sono poche: l’
ecstasy potrebbe aiutare a superare il disturbo da stress post-traumatico intrattabile? LSD e psilocibina potrebbero essere impiegate nel trattamento della cefalea a grappolo? Le droghe psichedeliche potrebbero aiutare a scoprire nuovi recettori in aree critiche per il controllo della depressione e della schizofrenia? E la marijuana potrebbe essere utile nei ragazzi con ADHD o nelle apnee da sonno e nella sclerosi multipla?
La richiesta che viene da
Scientific American è dunque quella di sdoganare queste droghe per scopi di ricerca, derubricandole dalla
Schedule I per farle approdare almeno ad una lista meno restrittiva come la
Schedule II e permettere così di testarle all’interno di
trial clinici, senza far impantanare l’entusiasmo dei ricercatori nelle pastoie burocratiche e negli infiniti tempi di approvazione dei comitati etici. E ridare così un po’ di impulso alla ricerca di trattamenti psichiatrici, stagnante da troppo tempo.
Maria Rita Montebelli
21 gennaio 2014
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