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Il Codice medico e il servizio “alla persona”

di Maurizio Mori

15 GIU - Gentile direttore,
la proposta di Marcello Valdini di rivedere il Codice di Deontologia Medica con uno sguardo nuovo mi pare di grande momento e meritevole di particolare attenzione. Come ha già opportunamente sottolineato Mariella Immacolato nella sua lettera del 13 giugno, l’avvento della pandemia Covid-19 impone un forte ripensamento dei programmi sanitari: si tratta di capire se la salute è un bene pubblico da garantire a tutti i cittadini, o un interesse privato che ciascuno persegue coi propri mezzi.
 
Sono grandi scelte di civiltà, che vanno compiute e sulle quali sinora si è tentennato: è giunto il tempo che i medici dicano la loro elaborando un pensiero forte e proprio, e il Codice Deontologico deve rappresentare questa posizione. Non so se interpreto correttamente il pensiero di Valdini, ma questo è l’“altro sguardo” cui allude Valdini nella sua proposta. Questo “altro sguardo” deve porre i medici in grado di affrontare con coerenza le grandi questioni aperte dalla biomedicina.
 
 
Ha fatto bene Valdini a mettere in luce alcune delle principali incongruenze interne all’attuale edizione del Codice deontologico (non le uniche), che dovrebbero essere prontamente rimosse perché la loro presenza genera una sorta di paralisi interna all’azione medica. La coerenza interna al Codice è requisito fondamentale e non facile da conseguire.
 
È ormai banale ricordare che negli ultimi decenni la medicina è cresciuta molto e che è molto diversa da quella invalsa fino agli anni ’70, quando molti degli attuali professionisti hanno cominciato a esercitare. È altrettanto chiaro che dovrà fare un nuovo salto di qualità per fronteggiare la pandemia in corso e le prossime che verranno, assieme alle inedite esigenze poste da un aumentato senso di dignità proprio dei cittadini.
 
Questo enorme ampliamento dell’ambito sanitario comporta un ripensamento del Codice di Deontologia Medica, perché non basta la modifica o l’aggiunta di qualche articolo a sanare la situazione. Anzi, spesso questo metodo – come ha rilevato Valdini – comporta l’introduzione di incongruenze e contraddizioni. Bisogna avere uno “altro sguardo”, uno sguardo ampio e scevro da alcune tesi tradizionali che ormai si rivelano essere veri e propri “pregiudizi” improponibili al fine di offrire una visione della attività sanitaria che sia al servizio della persona.
 
Per far questo, bisogna superare il “modello Galateo” del Codice che è legato a un’epoca ormai tramontata. In concreto, ciò significa abbandonare le pretese “medicocentriche” che ancora sono radicate in parte della professione. I più che legittimi interessi professionali possono essere e vanno garantiti all’interno di una prospettiva nuova che abbia come centro il servizio alla persona e la tutela della salute in senso ampio (fisico, psichico e sociale).
 
Anche su questo punto ha ragione Valdini quando osserva che i doveri del medico non possono “prescindere dalla identificazione del servizio alla persona” e alle esigenze della persona: aspetto che assegna la priorità alla tutela della salute rispetto alla tutela della vita (astratta).
 
Per esemplificare: concordo con Immacolato che non è affatto sufficiente la modifica apportata all’art. 17 del Codice per chiudere o tamponare il problema dell’assistenza medica al suicidio. Il cambiamento di questo punto imposto dalla sentenza della Corte Costituzionale esige un ripensamento radicale dell’intera attività medico-sanitaria: sarebbe stato meglio che i medici italiani avessero essi stessi dato l’avvio alla revisione in modo autonomo, come è accaduto con la Canadian Medical Association e con altre Società mediche, senza essere al traino del diritto, ma ora il processo di revisione è comunque richiesto e andrà fatto, e è meglio essere collaborativi invece che restare aggrappati a tesi di sapore ippocratico che ormai appaiono desuete.
 
Ripensare le modalità circa il come morire comporta il ripensamento dell’intera attività medico-sanitaria e quindi dello stesso impianto dell’intero Codice.
 
Altro input a questa prospettiva viene dalle Raccomandazioni Siaarti, che hanno messo in luce come in certe condizioni la scelta di chi curare avvenga sulla scorta di criteri clinici e di criteri etici.
 
Mariella Immacolato ha addirittura proposto una possibile formulazione dell’articolo al riguardo: non oso tanto, ma mi limito a alcune indicazioni generali per chiarire i termini del problema.
 
Infatti, invece di contribuire a sviluppare la sollecitazione, il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha subito contrastato le Raccomandazioni Siaarti ribadendo che solo il criterio clinico è adeguato e che “ogni altro criterio di selezione […è] eticamente inaccettabile”.
 
Questa posizione, però, non tiene conto della realtà e scambia i desiderata con i dati di fatto: come ho mostrato nella Posizione di minoranza al Parere CNB gli argomenti razionali mostrano che il criterio clinico non basta e va integrato da altri criteri, che vanno individuati attraverso un ampio dibattito. So bene che non è facile farlo, ma è uno dei compiti che dobbiamo affrontare con coraggio.
 
Ancora, so bene di essere in minoranza nel sostenere che oltre al criterio clinico bisogna avere criteri etici (di giustizia distributiva e altri), ma essere in minoranza non equivale a aver torto: anzi, spesso la minoranza ha aperto nuovi orizzonti morali. In etica vale la forza della ragione addotta, e non la conta delle teste.
 
Se è vero questo, e se è vero che le Raccomandazioni Siaarti hanno colto un punto decisivo da includere nel Codice, allora l’osservazione fatta diventa un motivo di più per ripensarlo con “altro sguardo” perché, ancora una volta, il cambiamento da introdurre è radicale e il metodo dell’aggiungere non basta, anzi può creare danni.
 
Maurizio Mori
Professore ordinario di filosofia morale e bioetica, Università di Torino
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica

15 giugno 2020
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