Disagio psicosociale: occorrono strategie nuove di risposta
di David Lazzari
27 APR -
Gentile Direttore,
secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Mental Health Atlas 2017, WHO 2018) in Italia abbiamo 3,8 psicologi ogni 100mila abitanti nei servizi pubblici di salute mentale adulti e infanzia. Se alziamo lo sguardo a livello internazionale ai Paesi a reddito paragonabile all’Italia però le proporzioni cambiano: 10 psicologi ogni 100 mila abitanti. Sostanzialmente il triplo.
Le cifre invece per medici, infermieri ed altri operatori risultano piuttosto in linea, evidenziando un gap che risalta soprattutto per l’assistenza psicologica. In sostanza nei paesi a più elevato reddito (Italia inclusa) nei servizi di salute mentale c’è uno psicologo ogni 10mila abitanti ed in Italia uno 26mila abitanti.
Queste cifre sono veramente preoccupanti se pensiamo che l’Italia è il paese più colpito dalla pandemia e nell’indagine effettuata dall’Istituto Piepoli per il CNOP (8 aprile 2020) vediamo un disagio psicosociale diffuso: stress/ansia (42%), disturbi del sonno (24%), irritabilità (22%), tristezza e umore depresso (18%), problemi relazionali (13%), problemi alimentari (10%). Non è ancora patologia ma è un malessere importante che può diventarlo, che danneggia la salute fisica e peggiora la performance sociale delle persone (lavoro, studio, relazioni) e della società nel suo complesso.
E’ evidente che di fronte a tale inedita situazione occorrono risposte nuove e diffuse per impedire che il problema psicosociale divenga in problema sanitario in senso stretto e ricada su un tessuto sociale ed economico già al limite.
La risposta non può essere farmacologica perché non si tratta di curare disturbi clinici ma di intercettare forme di malessere rispetto alle quali le strategie più efficaci e accreditate sono quelle psicologiche, sia per la prevenzione diffusa, la promozione della resilienza, che per l’intervento. Altrimenti si rischia di andare a caccia di passeri con il bazooka e di creare una diffusa dipendenza da farmaci, della quale non abbiamo bisogno visti i dati già oggi allarmanti. E poi non esistono indicazioni scientifiche per fare questo.
Che fare allora? Certamente rafforzare la presenza degli psicologi nei servizi sanitari pubblici, visti i dati. Va bene sostenere la popolazione con i numeri telefonici di ascolto, che possono rappresentare un primo significativo riferimento.
Ma tra i telefoni ed i servizi pubblici servono forme nuove ed intermedie. Perché i telefoni sono utili ma non possono assolutamente bastare e i servizi possono essere un intervento di 2° livello ma non certo la risposta complessiva che serve.
Forme che possono realizzarsi in tempi rapidi (perché il fattore tempo è fondamentale) soprattutto in due modi (entrambi necessari perché complementari): a) attivazione di strategie di prevenzione/promozione delle risorse psicosociali (aiutare ad aiutarsi) e b) possibilità ai cittadini di un sostegno psicologico gratuito o comunque agevolato (aiutare quando serve).
La prima azione richiede l’attivazione di programmi di interventi di comunità mirati e ben strutturati ((vedi WHO 2015 e The Lancet Commission 2018) a livello comunale e sovracomunale (servizi sociali e di welfare), nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Programmi che possono essere attivati da fondi pubblici mirati con la integrazione di fondi per il sociale (MES, fondazioni bancarie, welfare aziendali, ecc.).
La seconda si potrebbe realizzare rapidamente e facilmente con dei bonus alle famiglie per l’accesso agli interventi psicologici nel privato (perché il pubblico sta come abbiamo visto sopra), anche modulati in base al diverso impatto della pandemia (es. persone malate covid, familiari malati e deceduti, ecc.).
Ricordiamo che il disagio psicosociale non è solo un problema delle persone, è un costo economico molto importante per la società (tanto è vero che il rapporto costi/benefici degli interventi è di 4/5 euro guadagnati ogni euro speso, vedi Chisholm et al. 2018).
David Lazzari
Presidente CNOP
27 aprile 2020
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