A proposito di “diritto all’amorevolezza”
di Carlo Flamigni
03 OTT -
Gentile Direttore,
la lettera della ex ministra
Livia Turco, pubblicata su QS, ha suscitato queste mie considerazioni sulla “amorevolezza”. So che l’uomo si affida alla ragione per la propria sopravvivenza e alla metafisica per la propria consolazione, ma che si affidi anche alla retorica, questo no, proprio non lo sapevo. Ma prima di parlare di questa “amorevolezza” (ma che brutta parola!) lasciatemi dire qualcosa sul dolore
Il primo problema di cui voglio parlare riguarda il diritto di morire, di rinunciare ad esistere quando proprio non ce la facciamo più, quando il dolore ha sopraffatto ogni nostra capacità di resistere, fino ad indurci a porre termine alla nostra esistenza, ammesso di non avere contratto debiti con la società. Ma esiste il diritto di chiedere a un medico, a un amico, di aiutarci a compiere quel passo? E dopo che abbiamo abbandonato il nostro corpo, quando non lo abitiamo più e la vita in lui non ha altro scopo se non quello di far crescere la barba e di stimolare la contrazione dell’intestino, abbiamo ancora il diritto, noi per l’averlo lasciato scritto da qualche parte, le persone che ci hanno voluto bene per rispettare i nostri ultimi desideri, di imporre ai medici di smetterla di torturare inutilmente quel povero guscio vuoto e di lasciare che si spenga in lui anche l’ultima, inutile scintilla di vita biologica?
Personalmente ritengo di essere padrone della mia esistenza, ma rispetto coloro che la pensano diversamente da me e ritengono che l’esistenza non ci appartenga ma ci sia stata data con uno strano dono che esige una restituzione. Chiederei, penso di averne il diritto, altrettanto rispetto.
La seconda cosa della quale voglio parlare è il dolore, un discorso difficile perché esistono tante varietà di sofferenza, tanti sinonimi, tanti sentimenti e tante esperienze che le sono apparentate da costruire un labirinto nel quale è facile perdersi. Come medico ho frequentato soprattutto il dolore fisico, quello del corpo, ma non mi è ignota la sofferenza morale, il dolore dell’anima. Maurizio Mori li considera insieme e li descrive soprattutto per lo spettro altrettanto variegato quanto quello dei colori che li contraddistingue, così che molti di essi possono essere ricondotti a esperienze uniche. La medicina non è capace di sottigliezze e tende a semplificare i concetti. Se trova una sofferenza, la considera e la cura come una malattia, ma la sua capacità di riconoscere il tipo di sofferenza al quale si trova di fronte è molto limitata.
È vero comunque che esistono molti tipi di dolore, dolori così diversi che alcuni di essi sono tra loro irriducibili. In realtà, per semplicità e per chiarezza, mi limiterei a definirne due: quello che potrebbe anche terminare, dal quale potremmo guarire, nei confronti del quale possiamo nutrire speranze; quello che certamente non guarirà mai, lo troveremo ogni mattina ad attenderci sapendo che ogni giorno ci dirà qualcosa di più cattivo di quanto ci abbia raccontato il giorno precedente. Questo è di gran lunga il dolore peggiore, perché è anche angustia, angoscia, affanno, solitudine, lutto. Questo è il dolore che può aggredire quella parte della nostra umanità che maggiormente ci preme perché può essere incompatibile con la nostra dignità e pertanto con la nostra capacità di accettare la permanenza in vita.
Questo dolore non può in alcun caso avere un valore sacrifico, non lascia altri spazi se non quelli che possono essere riempiti dalla sofferenza.
Posso dire, per esperienza personale, che vivere nel dolore ci consente di capire fino in fondo che cosa intendiamo per dignità: è la cenestesi dello spirito, il ricordo di me che vorrei lasciare alle persone che mi hanno voluto bene, la consapevolezza di meritare il rispetto affettuoso e sincero da parte delle persone che sono riuscito ad aiutare.
Vivere nel dolore, consapevoli del fatto che non ti abbandonerà mai, fa nascere dentro di te, a un certo punto della tua esistenza, il desiderio di abbandonarla. E la scelta del momento di questo abbandono dipende molto di più dal tuo amore per gli altri che dall’amore degli altri per te. Questa “amorevolezza” (ripeto, ma che brutta parola!) fa parte di quei “debiti sociali” che mantengono in vita anche coloro che patiscono di sofferenze inenarrabili. Questo però non potrà durare in eterno: verrà il momento in cui nelle persone che amo prevarrà il sentimento di dolore legato al fatto di dover assistere quotidianamente alle mie crescenti sofferenze sapendo di non poterle lenire in alcun modo; in quel momento capirò anche che è iniziata una rinuncia alla mia dignità e che sono sul punto di lasciare di me un ricordo orribile, quello di una persona che sta morendo lentamente affogata dal proprio vomito, abbrutita dai propri lamenti. In quel momento sceglierò di andarmene e chiederò alle persone che mi vogliono bene di aiutarmi, cercando di non coinvolgerle troppo, ma non lasciandole completamente fuori dalle mie ultime scelte.
Ho molto rispetto per i cattolici e per le loro personali scelte, anche quando coinvolgono cose nelle quali non credo. Chiederei altrettanto rispetto.
Capisco che la Chiesa cattolica si opponga, sulla base dei suoi dogmi personali e privati e delle sue verità, a una cura moderna della sterilità, all’impiego di farmaci che impediscono la gravidanza indesiderata, all’eutanasia, persino a quella compiuta nelle condizioni più disperate e in assenza di ogni speranza. Ma da non credente vorrei che di fronte ai problemi della sofferenza si cessasse di utilizzare lo spadone a due tagli della “ verità religiosa”, di qualsiasi divinità si ritenga testimone. La “verità religiosa” è una verità come le altre, certamente non illuminata dalla luce delle certezze se non per i suoi fedeli.
Mi piacerebbe confrontarmi con religioni che basano il loro intervento sull’uomo non più su questa imperfetta “verità”, ma sulla compassione. Compassione, non pietà: perché la pietà discende, la compassione è orizzontale, ci vede tutti uguali, tutti fratelli disposti a soffrire con gli altri fratelli.
Questa lettera che ho letto sulla “amorevolezza” è un insulto al mio buon senso e alla mia dignità. Non basta essere un ex ministro della salute per scrivere queste cose.
Carlo Flamigni
03 ottobre 2019
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