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La comunicazione in medicina e i suoi stereotipi

di Marco Ballico

18 MAR - Gentile direttore,
nell’ambito delle riflessioni in preparazione agli Stati Generali e ponderando il testo delle 100 tesi proposto dal Prof. Cavicchi, mi soffermerei sul tema della Comunicazione in Medicina. Temi imprescindibili quando si parla di Comunicazione sono quelli del linguaggio e della lingua considerando quanto sia assodato che nella comunità medica esista un vocabolario esclusivo e poco accessibile tanto da contribuire alla distanza nella Relazione col paziente e a volte, diventare un vero problema.

In questo scritto faremo un breve excursus di alcune teorie del linguaggio e qualche considerazione sulla criticità che ciò aggiunge alla già delicata situazione storica del medico contemporaneo.

Il linguaggio è l’insieme dei fenomeni di comunicazione e di espressione che si manifestano nel mondo. Ciò va distinto decisamente dalla lingua che invece è quel modo concreto e storicamente identificabile in cui si manifesta la facoltà del linguaggio.

Nel gruppo delle lingue storico culturali (De Saussure) possiamo ritrovare sia una lingua come prodotto sociale e che ciascun individuo assume e registra passivamente senza che lui possa né modificarla né crearla; sia una lingua che attiene più all’aspetto individuale e creativo che invece è produzione personale. Inoltre dobbiamo convenire che la lingua non sia una semplice nomenclatura degli oggetti, anche se è necessaria una sua costanza e coerenza di significato per mantenerne la trasmissione e la comprensibilità.

Comunicare, quindi, equivale a confezionare un contenuto (cercando di chiarirlo prima di tutto a se stessi), trovando quell’espressione che sia capace di esprimere e trasmettere tale contenuto: è un atto da eseguirsi con un controllo preventivo per verificare se l’espressione scelta sia capace di comunicare in modo adeguato il contenuto stesso.

Nella disamina degli aspetti comunicativi tra medico e paziente troviamo necessario, perché questi due attori possano capirsi, analizzare almeno gli aspetti della comunicazione verbale in quanto il medico possa parlare una lingua accessibile e il paziente possa avere la ragionevole certezza di comprendere e di essere compreso.

Non ci occuperemo di altri approcci culturali sicuramente importanti (Watzalvick, Pierce, Chomsky e altri) in particolare della comunicazione non verbale che attiene a quelle espressioni mimiche e gestuali che accompagnano la verbalità e danno senso, colore e coerenza al messaggio, a volte connotandolo a volte rendendolo ambiguo.

Troviamo ancora attuale, invece, attingere ai classici studi dello strutturalismo (Jackobson, Slowski) dove si propone lo schema in cui un mittente invia un messaggio ad un destinatario all’interno di un contesto, con un determinato codice, con un sufficiente contatto e a questi elementi associarvi alcune funzioni che maggiormente vengono coinvolte proprio nell'ottica del rapporto medico-paziente.

Semplicemente se considerassimo la prossemica e il contatto (funzione fatica) potremmo dire che: qualora il mittente fosse troppo concentrato su di sé e poco sul destinatario evidentemente la funzione “io” diventerebbe prevalente e poco del messaggio potrebbe arrivare al destinatario. Qualora la funzione fosse prevalentemente conativa il messaggio si rivolgerebbe esclusivamente al destinatario e il mittente si solleverebbe dall’Interazione. Quando invece l’attenzione venisse data esclusivamente al messaggio saremmo di fronte alla funzione referenziale e ciò comporterebbe la sparizione dei due attori determinando una comunicazione simil giornalistica.

In questo breve schema potremmo già riconoscere alcune note dinamiche medico-paziente. Qualora il medico fosse troppo concentrato su di sé escluderebbe il paziente, quando tutto fosse rivolto al paziente il medico si defilerebbe, quando il messaggio fosse esclusivamente referenziale saremmo di fronte alla lettura di un bollettino medico.

Non troviamo nemmeno adeguate alcune frasi che sembrano degli slogans perché nei loro significanti rischiano di fuorviare proprio dal tema che vorrebbero trattare e risolvere. Per esempio nel “mettere al centro il paziente” si intenderebbe renderlo importante, ma di fatto, in termini comunicativi ciò diventa contraddittorio, lo si rende oggetto e non soggetto: quindi parlare del paziente o sul paziente non lo avvicina al medico,ma lo allontana. Paradossalmente “mettere al centro il medico” rischierebbe di metterlo a servizio di una medicina per lui né controllabile né discutibile, ma da dover esercitare; “mettere al centro la salute” potrebbe coinvolgere, invece, soggetti Altri, ovvero, gestori della stessa (il noto terzo pagante) che nel rapporto diadico non sarebbero previsti.

Al centro ci dovrebbe essere la Relazione nella sua essenza più umana e poi tecnica. Negare la tecnica oggi oltre che antistorico, sarebbe un assurdo neo Romantico, un dannoso anacronismo.

Nella pratica quotidiana avviene spesso che il medico utilizzi termini tecnici incomprensibili e che il paziente si ponga nella comunicazione in termini incongrui accentuando la sua non competenza o affermando la sua pseudocompetenza magari costruita in Rete. Il risultato sarà quello che per far bene il lavoro e non avere nessun tipo di conseguenza (medicina difensiva), la comunicazione avvenga su un piano asciutto e referenziale dove il medico si limiti alla traduzione “volgare” di un gergo tecnico-scientifico e il paziente dia un consenso che assomiglia più ad una presa d'atto.

Un'altra questione linguistica e concettuale riguarda la descrizione del “rapporto medico-paziente” in cui sentiamo spesso l’equivalenza di Rapporto=Relazione e non facciamo attenzione che, in realtà, stiamo confondendo due concetti differenti: Interazione e Relazione. L’Interazione è quella costruzione della realtà che il medico e il paziente esercitano nell' hic et nunc non mettendo in campo particolari valenze emotive, cognitive, storiche, affettive e si esaurisce nel tempo della sua durata. Può essere di buona o scarsa qualità, ma in essa ci si concentra sul referente che è il messaggio (in questo caso clinico) che deve passare, compreso o meno che sia. Nella Relazione, invece, parliamo di qualcosa di estremamente più ricco: la Relazione non si gioca sul piano orizzontale, ma sul piano verticale in quanto gli attori della comunicazione, medico e paziente, si pongono come persone, quindi con i loro valori, i loro miti, le loro conoscenze e la propria matrice culturale. Potremmo quindi dire che la Relazione contiene l’Interazione e ne darebbe significato (Cigoli Scabini).

Un altro tema che vorremmo introdurre nella riflessione e che completerebbe quello affrontato sulla Comunicazione è il concetto di Cibernetica di primo e di secondo ordine, epistemologia che sta alla base della teoria dei sistemi (Bertalanffy)

Se assumessimo solo la Cibernetica di primo ordine, nata come ottica multidisciplinare di osservazione dei sistemi per verificarne il funzionamento e volta alla loro possibile riproducibilità (a tutti è noto il concetto di feedback), applicheremmo di fatto la modalità conoscitiva e applicativa della scienza contemporanea.

Infatti nella logica neo positivista l’osservazione del funzionamento dei sistemi, viventi e no, è il primo passo verso la conoscenza.
Limitandoci a questo, però, compiremmo una parzialità che diventerebbe errore nel momento in cui non tenessimo conto della funzione attiva che ha l’osservatore in questo contesto. La cibernetica di secondo ordine (Von Voerster, Bateson), invece, ci apre una strada sconosciuta e sempre diversa considerando che il punto di vista dell’osservatore, e quindi l’osservatore stesso, è parte integrante del Sistema osservato. Pertanto ogni sua influenza modifica il funzionamento del sistema stesso.

Nel rapporto medico-paziente, dove è inclusa una gerarchia determinata dal sapere, e in definitiva un potere, anche se non dichiaratamente esercitato, troviamo necessaria una lettura che consideri la cibernetica di secondo ordine. Il medico non può viversi spettatore nella vicenda storica del paziente o peggio ingranaggio di un meccanismo a lui estraneo.

E’ noto, per esempio, che la stessa terapia proposta da medici diversi, o con pazienti diversi, porta a risultati differenti e questo non solo perché la medicina, usando uno stereotipo, non sia una scienza esatta, ma perché, come diceva Balint, il primo farmaco è il medico stesso a conferma che esistono fenomeni non sempre prevedibili o descrivibili dal paradigma scientifico classico.

In definitiva, se volessimo analizzare e promuovere gli aspetti comunicativi del rapporto medico-paziente, l’obiettivo sarà quello di valorizzare la loro Relazione, nella sua essenza e nel suo contesto, considerando che, per ciò che è stato esposto, la Relazione attiene a piani non misurabili e potrebbe essere l’unico elemento che diversificherebbe una medicina umana per gli umani da una robotica per degli organismi viventi.
 
Marco Ballico
Medico Chirurgo Psicoterapeuta
Docente IUSVE
Coordinatore Commissione Scientifica Fondazione Ars Medica
OMCeO Venezia

18 marzo 2019
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