Noi giovani medici, figli di una medicina in rovina
di Brenda Menegazzo
17 MAR -
Gentile Direttore,
sono una giovane medico e ho preso parte all’iniziativa “
Mercoledì filosofici” della fondazione Ars Medica con l’obiettivo di delineare gli aspetti della crisi culturale e sociale della medicina dal punto di vista dei neoabilitati alla professione. Ho letto l’articolo del presidente dell’ordine dei medici di Brescia (
QS 15 marzo) e pur comprendendo le difficoltà di un medico che si trova non certo all’inizio della carriera , ad accettare l’idea di un cambiamento addirittura di paradigma, devo dire che, al contrario, per un medico all’inizio del suo percorso professionale , questo cambiamento è per certi versi necessario se non obbligato.
I medici che si sono laureati come il dottor Di Stefano circa 30 anni fa e quelli come me che si si sono laureati praticamente “oggi” cioè nel tempo della “questione medica”, in “quello della “medicina amministrata”, della task shifting, del contenzioso legale, e della medicina difensiva, del depauperamento professionale, è normale che abbiano punti di vista diversi, mi chiedo tuttavia se le soluzioni che servono soprattutto a noi giovani medici devono essere orientate alla difesa del passato o se forzatamente devono essere orientate ad un futuro possibile ed auspicabile.
Le
100 tesi che stiamo discutendo, a mio parere, sono decisamente orientate al futuro e vorrei vedere che così non fosse, non mi pare che neghino nessuna buona cosa del passato cioè del paradigma positivista ma nello stesso tempo si sforzano, necessariamente con “un fiume di parole”, di ridefinire e ricontestualizzare un paradigma sulla cui attualità qualsiasi giovane medico avrebbe da ridire.
Poco più di 6 anni fa abbiamo fatto il nostro ingresso alla Facoltà di Medicina, ricchi di entusiasmo e ambizione, determinati a diventare dei buoni medici: allora pensavamo che ciò implicasse unicamente acquisire nozioni tecniche e linee guida, e che questo fosse sufficiente per poter diagnosticare correttamente ogni patologia.
Figli di un pensiero positivista abbiamo basato la nostra conoscenza su assolutezza della scienza, regolarità dei processi e natura come ordine. In parte l’Università ha soddisfatto le nostre aspettative fornendoci un’infinità di nozioni sotto forma di pesantissimi tomi da memorizzare. Con il tempo e l’esperienza abbiamo realizzato che essere medico, ma soprattutto fare il medico, comporta molto di più.
Innanzitutto, è ormai riconosciuto come il paradigma delle certezze nel campo della scienza sia solo un’utopia: complessità della natura, irregolarità dei processi, nuove scoperte a sconfessare vecchi dogmi, superamento del nesso causa-effetto. È chiaro ai nostri occhi come sia necessario conformarsi ad un nuovo concetto di scienza, non più esatta ma probabilistica, e di malattia, non come deviazione ma come ordine diverso.
Tali evidenze non si ripercuotono solamente nel lavoro del medico ma anche nella fiducia che il paziente ripone nella professione. Ci confrontiamo, oggi, con una società, diversa da quella con cui si confrontavano i nostri predecessori, che non accetta di buon grado il parere medico-scientifico ma si scontra con esso, avanzando diritti e pretese: è nostro compito, di fronte alla malattia, accogliere l’idea di un approccio funzionale flessibile, in grado di contemplare tutte le possibili vie e che coinvolga il paziente quale coprotagonista nel processo decisionale.
Dobbiamo proporci quali interpreti, in grado non solo di tradurre ma di mediare un dialogo tra scienza e società. Non riceviamo alcuna preparazione in merito, ma ci risulta facile, con l’ingresso nei reparti e negli ambulatori, cogliere il disagio, il distacco e la necessità di un intervento “umano”.
Ma possiamo davvero intervenire? Potremo realmente diventare quei bravi, nuovi, medici, aperti ad una scienza innovativa e ad un’alleanza sociale? La discrepanza tra il numero di laureati e il numero di borse di specializzazione impedisce il completamento della nostra formazione, e molti di noi vengono abbandonati a navigare a lungo in un mare di incertezze, precariato e impieghi sottopagati; per contro il paradosso di strutturati oberati di lavoro che dividendosi tra lezioni, corsia, ambulatori, sale operatorie e burocrazia perdono la loro identità di guaritori ed insegnanti, potendo dedicare briciole di tempo a pazienti, tirocinanti e specializzandi; questi ultimi a loro volta sfruttati come manodopera a basso costo, privati del diritto di ricevere una formazione degna di una preziosa risorsa.
Diventare un buon medico richiede tempo, attenzione, dedizione e umanità da parte di tutti: insegnanti, specializzandi e studenti. Oggi ognuno è privato del suo ruolo, e perdiamo il contatto con gli altri e con noi stessi. A pagarne le spese non è solo la categoria medica, ma è soprattutto la società: una buona formazione dei medici assicura un buon sistema sanitario; i tagli, le privazioni e la mancanza di libertà distruggono le possibilità di ricostruzione e crescita.
Come giovani medici siamo pronti al cambiamento, desiderosi di una medicina nuova, dinamica e vicina al singolo paziente; anche se allo stesso tempo paralizzati da un sistema che appare sempre più vicino al capolinea e che ci considera non risorse ma pedine. Una nuova medicina non può nascere senza anche il contributo di noi giovani medici.
Brenda Menegazzo
Giovane medico-partecipante ai Mercoledì filosofici della Fondazione ARS Medica Omceo-VE
17 marzo 2019
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore