Cari medici, vogliamo mettere in soffitta la parola “paziente”?
di Mauro Gugliucciello
14 APR -
Gentile Direttore,
intervengo nell’interessante dibattito, sulla cosiddetta “questione medica”, che è diventata, grazie alla sua testata, uno scambio pubblico di opinioni, in linea con le esigenze dei tempi attuali. Ci sono, alla base di questa problematica, delle ragioni storico-culturali ben precise che emergono solo a tratti nel dibattito animato, a volte, da un'eccessiva emotività.
Ragioni che richiedono, per la loro complessità di analisi, una coraggiosa dose di autocritica e di onestà intellettuale. Solo così sarà possibile per i medici, ma anche per le altre professioni sanitarie, affrontare i problemi e proporre soluzioni coerenti ed adeguate.
Consapevolezza e lungimiranza che non mancano certo
nel pensiero di Antonio Panti anche quando ricorda, a Cavicchi, che quello che è successo in Emilia Romagna riguardava “l’autonomia della professione infermieristica” e, ancora, quando “banalmente” afferma che, le questioni sanitarie, si risolvono coinvolgendo “non solo i medici”.
Dal canto suo Anelli sostiene che la categoria deve riconquistare autonomia e responsabilità professionale. Al neo Presidente della FNOMCeO chiedo però, coerentemente e in discontinuità con la storia recente, di non ostacolare l'ormai conquistata autonomia, indipendenza e responsabilità delle altre professioni sanitarie che, oltre ad essere una realtà giuridica, deve diventare prassi in tutte le sedi lavorative.
Ad esempio il Fisioterapista, ma non solo, ha la titolarità (L. 251/00) delle competenze a lui attribuite. Il medico dovrà, quindi, superare la prassi di prescrivere prestazioni sanitarie affidate ad un altro professionista. Una volta che un medico individui la necessità per la persona assistita del coinvolgimento di un'altra professione sanitaria , è utile “prescriva” (consigli) il professionista adeguato, cui spetterà il compito di decidere, anche in équipe, quali trattamenti attuare.
E’ questo un passaggio che richiede un cambiamento culturale ed organizzativo sicuramente impegnativo, ma ormai ineludibile, in ossequio alla normativa vigente e in linea con gli standard del progresso scientifico e tecnologico, nonché con le necessità di un sistema salute in bilico fra richieste sempre più elevate e la sua stessa sostenibilità.
La guerra di trincea finisca e i medici illuminati, come Panti, contribuiscano ad aprire gli occhi ai tanti che non capiscono o che non vogliono capire o che si rifiutano di accettare la realtà, cercando di ridurre la dignità degli altri professionisti a meri esecutori di prestazioni. Esattamente quello che i medici contestano che si tenti di fare nei loro confronti.
Nel bel mezzo di questa rivoluzione Copernicana, che spero sia preludio di un nuovo Rinascimento in ambito sanitario, chiedo a Benci, Cavicchi, Cembrani, Gostinelli, Melotti, Panti, Rodriguez ed altri che stanno stimolando un dibattito culturale senza precedenti, se concordano nel cominciare a mettere in soffitta la parola “paziente”, sostituendola con “persona assistita”.
Già nel 1998, come Responsabile del Codice deontologico del Fisioterapista, scritto in collaborazione con l’allora Tribunale dei diritti del Malato, avevo chiesto loro di decidere quale fosse la denominazione più congrua per definire il cittadino con problematiche di salute. La qualificata Organizzazione scelse “persona assistita”.
Questa definizione rende evidente la “nuova centralità” e il ruolo sempre più attivo che la persona esercita nella scelte decisionali che la riguardano, aiutando un inevitabile cambiamento culturale e di prospettiva dei professionisti coinvolti nei processi sanitari. Nel lessico comune quando parliamo di “paziente” potremmo sostituire “persona assistita”, quando risulti troppo lunga, con “assistito”.
Che ne dite di cominciare ad adottarla nei vostri articoli? Grazie per l’attenzione.
Mauro Gugliucciello
Fisioterapista
14 aprile 2018
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore