Biotestamento e obiezione di coscienza
di Fabio Cembrani
23 DIC -
Gentile direttore,
sul Quotidiano da Lei diretto sono stati pubblicati, in questi ultimi giorni, una serie di interventi (l’ultimo, in ordine temporale, è
quello del Ministro della salute) che sembrano aprire la strada all’esercizio dell’obiezione di coscienza dei professionisti della salute nelle pratiche normate dalla nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento.
Lei sa che questa legge mi preoccupa senza convincermi e Lei sa anche che una sola Società scientifica (l’Associazione italiana di Psicogeriatria) ha preso una posizione ufficiale prima (non dopo) la sua promulgazione, nel silenzio generale assordante, anche di chi oggi plaude tardivamente alla sua approvazione con lo strano costume italico di stare sempre dalla parte dei più forti (o numerosi). Tuttavia, le critiche devono essere costruttive e non possono appellarsi all’obiezione di coscienza per sabotare regole approvate legittimamente dalla maggioranza parlamentare, con la pretesa di affermare primati o esclusività.
Anche perché così facendo si rinvigorisce la posizione di chi considera l’obiezione di coscienza una tra le più temibili minacce per l’ordine costituito auspicandone scenari di morte: mettendo essa in discussione i diritti e le libertà degli altri cittadini, la tenuta della solidarietà, l’unità dell’ordinamento e la stessa idea di legalità su cui poggia il diritto.
Ai molti (attuali) sbadati occorre ricordare il carattere conciliativo dell’obiezione dando essa fondo all’idea che lo sviluppo sincronico e coerente delle nostre personalità (art. 2 Cost.) non può farne a meno. Senza la coscienza si affievolisceil diritto della persona umana di sviluppare progressivamente e gradualmente la sua personalità; soprattutto in questo momento della nostra storia la cui caratteristica principale è data dall’anestesia delle coscienze personali, dall’egoismo, dal profitto e da una certa pseudo-cultura ludica, purtroppo dominante, che banalizza le questioni senza disambiguarle e rendendole così ancor più opache.
Ciò non significa però che la libertà di coscienza debba essere salvaguardata a tutti i costi e con ogni mezzo e, anzi, allargata a tutti quei campi del vivere collettivo sui quali esistono visioni morali controverse; con nuovi ed inaspettati volti assegnati all’obiezione di coscienza, davvero dalle conformazioni somatiche impensabili fino a qualche decennio fa quando, con l’abrogazione dell’obbligo di leva, l’interesse per questo istituto sembrava essere definitivamente tramontato. Perché l’obiezione di coscienza è soggetta all’interposizione del legislatore nella sua opera di attento bilanciamento degli interessi in gioco non avendo uno statuto assolutamente illimitato, estendibile a nostro piacimento a tutti quegli ambiti del vivere collettivo in cui le visioni etiche non sono conciliabili.
Perché non è assolutamente così!
Con questo non voglio però posizionarmi nella schiera di chi ritiene che il non facere ponga a repentaglio l’unitarietà e la legalità del diritto, diventando così uno strumento pericoloso e disgregante la socialità e l’ordine costituito: una mazza (o una clava) che può essere brandita da chicchessia con l’obiettivo di spaccare l’ordine e l’asse politico, pur deciso dalla maggioranza democratica; messa, paradossalmente, a disposizione dall’ordinamento nelle mani di ogni consociato e dei gruppi sociali minoritari che si possono così opporre alle decisioni da questa assunte, di fatto contrastandole sul piano politico.
Dando così scacco alla legalità su cui si regge l’ordinato vivere civile che deve sapersi difendere ed ergere un argine invalicabile contro chi viola i divieti e contrasta i doveri inderogabili attesi dall’ordinamento e necessari per la sua stessa sussistenza. Anche perché, in alcuni campi del nostro vivere (nell’interruzione volontaria della gravidanza, primo tra tutti), la schiera degli obiettori è diventata così folta e numerosa da mettere in discussione il diritto della donna ad una scelta procreativa responsabile compromettendo la regolarità e la continuità del funzionamento dei servizi pubblici e così impedendo l’esercizio delle libertà che la legge pur ad essa riconosce.
La posizione di chi difende l’obiezione di coscienza a tutti i costi e con ogni mezzo dimentica -o finge di non vedere- quali sono le sue conseguenze pratiche in alcuni campi del vivere sociale. Soprattutto in quelli in cui il non possum dell’obiettore incide direttamente e nell’immediato sui diritti e sulle libertà degli altri consociati, mettendo a repentaglio la sussidiarietà delle istituzioni pubbliche e la stessa idea di solidarietà che ne rappresenta le fondamenta costitutive. Perché l’esercizio di ogni nostro diritto di libertà deve necessariamente fare i conti con l’idea di solidarietà e di mutua cooperazione che tiene assieme le maglie di una collettività nella cui rete coesistono aspetti culturali e umani profondamente diversi.
Senza dimenticare che il loro esercizio pratico sarebbe puramente teorico senza questa prospettiva di fondo che è la sola a porci nelle condizioni di poter realmente esercitare i diritti e le libertà in un contesto concreto e vitale e non su un’isola deserta in cui, sul piano almeno teorico, ogni nostro comportamento può essere almeno teoricamente lecito.
Perché un conto è vivere da soli su di essa essendo le nostre libertà soggette al solo vaglio ambientale e dalle opzioni ambientali e dalle nostre necessità fisiologiche; un altro è, invece, scegliere responsabilmente di compiere il nostro arco di vira in un contesto collettivo dinamicamente ordinato dove gli orientamenti filosofici, religiosi e morali sono diversi e dove, proprio a causa di questa diversità, la scelta democratica durevole e sicura non è quella di agire con i mezzi della repressione o con l’oppressione ma con la cultura della sussidiarietà, del rispetto, della non discriminazione, della reciprocità e della solidarietà. Nella certezza che l’idea di giustizia è fatta sì di diritti e di libertà di base iscritte in ogni persona umana ma che esse, proprio perché siamo esseri umani, si devono relazionare, in prospettiva conciliante, con le ragioni pubbliche, con gli interessi collettivi, con i doveri inderogabili e con un’equa uguaglianza delle opportunità concesse a tutti. Perché la loro parità, spesso annunciata a voce, viene troppo spesso tradita nei fatti.
Senza quest’idea di fondo ciò che viene compromesso è la stessa idea di democrazia e la tenuta delle sue istituzioni che devono garantire (e promuovere) le stesse libertà di base e le stesse opportunità a tutti i consociati, senza discriminazione alcuna ed in termini conciliativi.
Tuttavia, qualche ragionevole obiezione deve essere anche mossa anche alla tesi opposta.
Chi afferma che l’obiezione di coscienza è un lusso che non ci possiamo più permettere forza, del tutto impropriamente, la perversione degli effetti pratici conseguenti al un suo utilizzo distorto, non sempre da interpretare in chiave confessionale. Arrivando al punto da considerala, addirittura, un temibilissimo avversario dell’ordine e della legalità costituita dalla maggioranza e così scartando, frettolosamente, quella prospettiva teorica (non solo costituzionale ma anche antropologica) che deve essere, a nostro modo di vedere, salvaguardata e difesa. Perché negare il valore della coscienza ed il diritto di ogni essere umano ad avere una coscienza è come amputare la persona umana di un suo tratto costitutivo specifico, individualizzante, irripetibile, anche se questo non significa certo posizionarla in uno spazio assiologico di ordine metafisico (o trascendente) ma storicizzarla nella trama dei valori costituzionali e all’interno della stessa idea di dignità.
Considerando, quest’ultima, non già come un (ulteriore) diritto che si affianca, per così dire, agli altri diritti e libertà sancite dalla trama degli ordinamenti ma come quel qualcosa che le caratterizza in maniera ordinata e che consente il loro effettivo esercizio all’interno del vivere collettivo. Dando forma, spessore e volume alla democrazia che non è, certo, un vuoto di relazioni, di nessi e di significati, a prescindere dai condizionamenti metafisici, filosofici e politici religiosi che su di essa vanno comunque ad incidere. E la cui asticella è stata posta, dai nostri Padri costituenti, in una direzione straordinariamente performante che non possiamo trascurare.
Dunque, entrambi i lati estremi dell’accesa discussione che il dibattito italiano registra sull’obiezione di coscienza (oggi rinvigoriti) non convincono appieno nemmeno i credenti. Perché il primo forza la prospettiva teorica ed antropologica della coscienza e della libertà del suo esercizio senza considerarne gli effetti pratici e la circostanza che la preminenza dell’una non può certo decretare la sconfitta dell’altra; e perché il secondo enfatizza le conseguenze pratiche del non possum coscienziale al punto, poi, da metterne in discussione la stessa legittimità del diritto di obiettare. Nella prima posizione prevalgono gli aspetti teorici a discapito degli effetti pratici; nella seconda si danno, invece, voce amplificante a questi ultimi ovattando, di conseguenza, gli aspetti della teorica costituzionale e della filosofia del diritto.
Resto, infatti, convinto che l’obiezione di coscienza sia un’eccezione rispetto alla regola generale che chiede ad ogni consociato l’ubbidienza (non passiva ma consapevole) ai precetti dell’ordinamento, nell’ipotesi in cui il diritto del singolo può compromettere i diritti e le libertà degli altri: quando, cioè, l’astensione o il non possum coscienziale incida non in astratto sulla loro concreta e piena esigibilità. Il che non significa abdicare all’idea che la coscienza continua a mantenere un ampio livello di protezione costituzionale: questo non è in discussione e, anzi, l’ordinamento nel suo complesso è doverosamente chiamato a dar spazio alle coscienze di ogni singolo consociato rafforzandone la promozione come bene di rango primario.
Attraverso un doppio binario di protezione:
(1) riconoscendo uno spazio ed una tutela generale ai moti dell’anima quando gli stessi non vanno ad incidere sull’esigibilità dei diritti di terzi, purché gli stessi non siano fonte né di disuguaglianze né di discriminazioni;
(2) ed una tutela particolare nell’ipotesi in cui il non possum dell’obiettore possa rappresentare un ostacolo reale e concreto alla soddisfazione e garanzia di questi diritti.
Perché, in questa seconda ipotesi, l’obiezione deve continuare ad essere una eccezione stabilita dal legislatore dell’urgenza chiamato al difficile complito di disciplinare la deroga anche se questo non significa ridurre né il livello di garanzia costituzionale assegnato alla coscienza né il diritto ad avere una coscienza .Per rimanere tale, è pacifico che l’eccezione deve essere garantita e salvaguardata da qualcuno. Non certo dai diversi gruppi identitari ma dalla maggioranza parlamentare chiamata, nella prudente attività di interposizione, al difficile compito di caratterizzare il reale conflitto costituzionale senza cedere alle pressioni confessionali, come sembra avvenire anche nell’ambito disciplinato dalla nuova legge.
Regolamentando il suo esercizio pratico, nelle ipotesi in cui ciò è realmente necessario, con vincoli procedurali non solo legittimi ma soprattutto produttivi di effetti pratici, bilanciando, sempre e comunque, i diritti inviolabili con i doveri inderogabili e ricercandone un loro, non sempre semplice, punto di equilibrio. Per non farla diventare un’opzione di comodo o una vera e propria forma di lotta politica perpetrata con la resistenza e con la disubbidienza civile che sono altre fattispecie rispetto al non facere coperto dal perimetro dell’obiezione. Ed insistendo, di necessità, sulla prestazione sostitutiva che mi sembra essere il solo strumento che può essere legittimamente usato nell’interposizione perché la coscienza mantenga viva la sua struttura veritativa, non essendo consentito alcun esame intrusivo nel vaglio coscienziale da parte di chicchesia.
Senza verità la coscienza si svilisce, perde forza e vigore, si trasforma nei fantasmi più o meno spaventosi ma comunque sempre temibili dell’egoismo imperante o dell’ipocrisia diffusa, perdendo il suo nucleo genetico connotativo. Mai dimenticando che, proprio in quanto testimonianza pubblica, il non possum coscienziale pretende sempre di pagare un prezzo; la cui onerosità dovrebbe essere tanto maggiore quanto più elevato è il pregiudizio arrecato dall’obiettore al regolare funzionamento dei servizi, al perseguimento degli obiettivi cui essi sono rivolti ed alla stessa esigibilità dei diritti di chi al servizio si rivolge per avere una risposta.
Con l’augurio sincero che il Santo Natale sia occasione di speranza e di confronto costruttivo.
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento
23 dicembre 2017
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