La medicina è a un punto di non ritorno
di Maria Luisa Agneni
28 NOV -
Gentile direttore,
in relazione alla vivace interlocuzione fra il
dottor Benci e il
prof Cavicchi desidererei introdurmi facendo alcune riflessioni in merito alla Medicina Ippocratica che già ha visto i colleghi
Cavalli e
Mancin e soprattutto il presidente dell’Ordine di Bologna
dr Pizza dire la loro in maniera autorevole e completamente condivisibile.
Premetto che non sono né una giurista né una filosofa ma solo un medico, specialista ambulatoriale, che ha avuto a tutt’oggi l’opportunità di trattare dai primi anni ‘80 diverse migliaia di persone e le mie considerazioni sono l’espressione di una attività medica sul campo.
Quello che viene definita Medicina Ippocratica è per me la Medicina con la M maiuscola, proprio quella che negli ultimi anni sta subendo attacchi ed affronti da più parti nel tentativo quasi completamente riuscito di ridurla a tecnica diagnostico- terapeutica.
La medicina non è una scienza ma si avvale delle scienze (fisica,chimica, biologia , matematica) in una complessità di conoscenze a cui dovrebbero concorrere pesantemente la filosofia, l’antropologia, la linguistica , la psicologia e molte altre scienze umane tutte rivolte allo studio dell’essere umano sano e malato.
Uso il condizionale perché attualmente si sta svuotando dell’aspetto umanistico per rinsecchirsi intorno a quello scientifico dove la standardizzazione delle procedure diagnostiche e terapeutiche garantiscono un sapere appiattito al medico e una terapia spersonalizzante al malato.
Il tutto condito con un esasperante utilitarismo dei mezzi e dei fini.
Non entro nel merito della burocratizzazione della medicina, spesso definita dal prof Cavicchi in un termine più ampio “medicina amministrata”, che pure ha molte responsabilità in questo scivolamento verso il definitivo declino della Medicina, ma vorrei sottolineare la crisi culturale complessiva della Medicina che è il segno prevedibile e puntuale di quella sociale diffusa e penetrata in ogni ambito.
Ho esordito affermando di aver “trattato” diverse migliaia di persone perché non so se le ho curate né tantomeno se le ho guarite: c’è una grande differenza.
La Medicina Ippocratica ci ha insegnato ad appassionarci al caso clinico, 2400 anni fa gettava le basi per il metodo di diagnosi e prognosi ancor oggi valido, mettendo sempre al centro non solo la manifestazione locale della malattia ma l’organismo considerato nella sua unità e nel contesto ambientale e di stili di vita.
Uno studioso della Complessità ante litteram Ippocrate che era consapevole di non produrre salute ma di ristabilirla con l’aiuto del malato che a lui si affidava.
In fondo che cosa è la presa in carico del paziente (soprattutto cronico) o il “prendersi cura” che le strutture e i medici che ne fanno parte responsabilmente fanno? E’ un prendersi la responsabilità di qualcuno che dovrebbe fidarsi del nostro operato; attualmente non senza averlo prima informato sui i pro e i contro che purtroppo nessuno è in grado di conoscere completamente essendo ogni caso clinico potenzialmente imprevedibile con variabili sconosciute.
Alcuni invocano l’empatia come strumento del ritorno alla buona relazione medico- paziente, altri come il prof Cavicchi la considerano una esagerazione e quindi parlano più realisticamente di osservatore implicato in ciò che osserva quindi di obiettività consapevole ma soprattutto insiste nel rimarcare la questione della fiducia. Personalmente penso che la relazione con il malato oggi spesso degenera in pretese e difese anche grazie alle sollecitazioni di quegli avvocati che hanno smesso i occuparsi dei “parafanghi” preferendo i più appetibili contenziosi medici.
Ma empatia vuol dire soffrire insieme, mettersi nei panni dell’altro (anche se con un “sano distacco”) e alla fine di una giornata di lavoro il medico sarebbe disintegrato dalla sofferenza! Vorrei dire al dott Benci che il paternalismo che lui considera un rottame di altri tempi e che oggi è stato ribattezzato “prendersi cura” “presa in carico” in realtà è più faticoso di quello che lui immagina. Ma soprattutto ormai è reso quasi impossibile da mille condizionamenti extra-clinici.
Secondo me la vera empatia è il riconoscere quello di cui ha bisogno il paziente: incoraggiamento? Protezione? Essere seguito nell’iter? Contenimento dell’ansia? Autogestione?
Come si può generalizzare un bisogno così peculiare e indicare demagogicamente il consenso informato come mezzo di una relazione fra pari che non c’è per definizione?
Il malato oggi vuole essere libero da sintomi prima possibile, dare un nome alla propria malattia e andare avanti senza farsi tante domande considerando intrusive quelle che il medico potrebbe porgli soprattutto sul suo stile di vita e sul suo sentirsi malato.
Così le malattie si stratificano in numerose comorbidità.
Il risultato è che viviamo a lungo con malattie croniche e invalidanti ma gli anni in buona salute e senza malattie sono sempre meno.
La cultura del tutto e subito, dell’utilitarismo e soprattutto del riduzionismo e del meccanicismo in medicina ha prodotto una pericolosa deriva nei confronti della possibilità di curare le persone: spesso si parla di rimettere al centro la persona, di curare il malato e non la malattia ma sono frasi vuote perché non seguite da alcuna azione riformatrice.
Se la medicina non recupererà la sua connotazione ippocratica , che si esprime peculiarmente nella clinica, ma continuerà a concentrare la sua attenzione al riduzionismo investigativo e terapeutico per includerla erroneamente in un abbraccio mortale fra le scienze esatte, i malati saranno sempre più considerati e trattati come soggetti la cui programmazione genetica è difettosa, i cui organi vanno sostituiti, le cui tappe metaboliche vanno aggiustate e si troveranno sempre di più di fronte a medici che col capo chino scruteranno i loro dati di laboratorio interpretati solo secondo parametri quantitativi, le loro tac, le loro risonanze , ma non alzeranno più lo sguardo per guardare negli occhi il loro interlocutore che soffre.
Tornando alla discussione sull’ippocratismo. Io penso che non saranno i giuristi che risolveranno i problemi della medicina e nemmeno i bioeticisti, ma neanche gli epidemiologi quando si illudono con l’ebm di non sbagliare un colpo, nemmeno i matematici che ricavano gli algoritmi di cura nella medicina di precisione, non saranno neanche coloro che ci parlano astrattamente di relazione, di sobrietà di comunicazione di narrazione. E men che mai saranno gli economisti, gli aziendalisti, che della medicina non sanno niente.
Non saranno costoro anche se ognuno di loro oggi ha la pretesa e la presunzione di dire a noi medici cosa sia la medicina e ognuno di loro ritiene di sapere come dovrebbe essere la medicina, quando un paradigma è finito, e quale paradigma di ricambio. Tutti pretendono di risolvere i nostri problemi ma senza soluzioni cioè senza quelle soluzioni adeguate alla complessità in gioco.
Il cuore epistemologico della medicina ippocratica si chiama clinica e oggi i problemi paradigmatici della medicina riguardano l’epistemologia della clinica. Essi necessitano per essere risolti di un “dipartimento di filosofia medica” per citare il prof Cavicchi (Medicina, in Enciclopedia filosofica vol 7) cioè di tante conoscenze messe insieme e coordinate da un’idea più evoluta di medicina.
Allora dell’articolo del prof Cavicchi vorrei riprendere due suggestioni.
La prima è la necessità di cambiare la definizione convenzionale di medicina. Ha ragione lui la medicina è complessità in massimo grado in quanto tale irriducibile tanto a una scienza che a tante scienze. La medicina è conoscenza di conoscenze quindi non può essere scientista e come tale non può essere definita. Tutte le definizioni di medicina sono scientiste.
La seconda è la prospettiva del neo-ippocratismo cioè un paradigma confermato nei suoi postulati fondamentali ma nello stesso tempo ridefinito nel nostro tempo. Penso in tutta franchezza che questa sia l’unica strada percorribile anche se mi rendo conto guardandomi intorno che in ragione soprattutto di una debolissima leadership intellettuale della professione sia una strada indispensabile ma comunque non facile da percorrere.
Ha ragione il prof Cavicchi oggi la medicina è a un punto di non ritorno e il rischio che tutti i medici sperimentano tutti i giorni sulla loro pelle è quello dell’alienazione intesa nei suoi aspetti di estraneazione, di spossessamento e di smarrimento professionale.
Cari colleghi, alzare lo sguardo per i pazienti corrisponde ad alzare la testa per la nostra dignità, autonomia, responsabilità e storia per difendere e consegnare ai giovani la Medicina neo-ippocratica; io sono pronta a combattere.
Maria Luisa Agneni
Pneumologa Specialista ambulatoriale ASL Roma1
28 novembre 2017
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