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Infermieri, Oss e il problema “demansionamento”

di Marcella Gostinelli

17 NOV - Gentile Direttore,
le scrivo dopo aver letto l’articolo di AADI del 1 novembre sul suo giornale. A me non piace la piega che ha preso la questione “Oss ed infermieri”, cosi come non mi piaceva quella fra “infermieri e medici”. Credo che le “faccende” siano caratterizzate dal conflitto e dal mancato riconoscimento, o dal timore di perderlo.
 
Io non penso che Nursind abbia deciso “(…)di istruire gli operatori sociosanitari (Oss) a posizionare PICC (catetere centrale ad inserimento periferico Ecoguidato) ed altri accessi vascolari”(..) e fare in modo che gli infermieri posizionino pannoloni. Non lo credo, leggendo nel merito, ho pensato più semplicemente che vi fosse stato un errore , un copia ed incolla sfuggito all’ attenzione di chi ha prodotto la locandina del corso. Dall’altra parte riconosco ad AADI il grande merito di aver sollevato , da infermieri ,e quindi dal cuore della professione, il fenomeno del demansionamento che Nursind, però, non ha mai nascosto anzi direi che lo ha affrontato anche in termini culturali. Entrambi hanno, dunque, lavorato per la stessa causa e ora si trovano a provare sensazioni spiacevoli dalle azioni dell’uno e dell’altro. Quale sarà allora la differenza fra i due? Gli infermieri come dovrebbero interpretare l’accaduto?
 
Occorrerebbe a mio avviso un’attenzione saggia verso ciò che accade e l’utilizzo di un’intelligenza che capisce ciò che è importante capire.
 
Io non frequento direttamente né gli uni né gli altri, ma mi sono trovata più volte ad apprezzare sia gli uni che gli altri. Da tempo mi sono fatta una idea che è quella della necessità che gli infermieri hanno di non alimentare altro conflitto al proprio interno ( propriamente infermieristico e non anche dirigenziale)e che per crescere davvero si debba iniziare ad utilizzare una razionalità non solo tecnica, ma che abbia anche un certo grado di autonomia intellettuale. Quello che non mi piace mai in queste situazioni è il fatto che non si voglia vedere solo ciò che si è visto , udire solo ciò che si è udito e continuare cosi a fabbricare conflitto su conflitto senza mai mettere una sincera volontà per capire. Indugiando ,infatti, nell’avversione si rischia di seminare disposizioni latenti che portano ad ulteriori avversioni ed ulteriore , eventuale, ignoranza. Discutendone e unendoci invece si può ottenere l’incredibile.
 
Nella lettera che AADI ha inviato all’Agenas, per denunciare quella che secondo l’Associazione, a torto o a ragione, è stata la scelta del sindacato Nursind, si leggono linguaggi usati che continuano a farmi sperimentare da infermiera sensazioni spiacevoli e diverse preoccupazioni legate alla motivazione dei professionisti di cura e alla cura prestata.
 
Io sono una infermiera che come motivazione intrinseca al lavoro che ha scelto ha , da sempre, la cura della sofferenza dell’uomo malato. Ora che sono anche paziente ne sono più che mai convinta. Io credo fermamente che da qui si debba ripartire. La vocazione antropologica è il punto della ripartenza per ogni professione sanitaria. La vocazione non è la missione. La condizione della “missione” non appartiene all’esercizio di una professione intellettuale, che ,in quanto tale, richiede un adeguato compenso. La missione può essere svolta per tante altre motivazioni, delle quali quella estrinseca non è certamente il denaro. La missione può essere esercitata anche da un professionista, ma fuori dal suo orario di lavoro e come forma di volontariato.
 
Fatta questa dovuta, opportuna, rispettosa distinzione fra vocazione e missione sento che sia impossibile operare senza questa originaria motivazione intrinseca che porta o dovrebbe portare il professionista, (ogni professione sanitaria), a considerare l’uomo malato come un individuo che ha una sua soggettività, una sua complessità -quella dell’essere, quella ontologica, e quella della malattia- ed una sua dignità. Un uomo malato cosi inteso e antropologicamente amato e curato non può e non potrà mai essere affrontato in termini di “un pannolone da cambiare” ed “un PICC da posizionare”, sia l’una che l’altra situazione non sono rispettose della complessità cui appartengono, quella del malato e del professionista che lo cura. Un infermiere “cresciuto” , consapevole, dovrebbe provare imbarazzo e sofferenza ad usare questo sguardo troppo ridotto al particolare, al mero tecnicismo ed alla sola legalità.
 
Io non voglio alimentare con questo mio pensiero altro conflitto, non è mia intenzione, vorrei invece offrire alla discussione una riflessione diversa, un pochino più complessa e nello stesso tempo anche più semplice e naturale.
 
Il punto allora, secondo me, non è tanto il fatto che l’Oss partecipi o no ai corsi di formazione degli infermieri o “chi lava o no il malato”, per usare un linguaggio spesso utilizzato dai colleghi che parlano di demansionamento , ma “chi curo”, e “chi sono coloro che curano”.
 
Se io considero l’uomo malato come “un corpo da lavare” sono già abusato e demansionato come infermiere. Se io considero l’operatore sociosanitario colui che devo chiamare per “lavare il corpo sporco che curo” , sono già abusato e demansionato. L’operatore socio sanitario non è un professionista della salute e non perché gli infermieri siano cattivi, ma perché non ha un adeguato percorso formativo che gli attribuisca responsabilità ed autonomia, non ha un codice deontologico, non ha un ordinamento didattico cui riferirsi. Questo dovrebbe bastare a rassicurare animi inquieti. Ma anche se non è un professionista non può stare fuori dal processo di cura e subentrare solo per il “lavaggio” perché cosi pensato non supporta , non aiuta, non complementa la cura, non rispetta l’uomo e neanche l’uomo malato nello stato di bisogno.

Se l’operatore sociosanitario partecipa ad un certo tipo di formazione (anche se per errore) non toglie niente al professionista infermiere, casomai conoscerà meglio il processo tecnico e sarà più abile nel sostenerlo durante la manovra.
 
Il vero demansionamento è non sentirsi, come infermieri, abbastanza forti e consapevoli per decidere sul fenomeno circostanziato della cura “chi può fare che cosa” e disobbedire là dove non ci permettono di farlo. Il vero abuso nasce con l’infermiere inconsapevole, il coordinatore che considera l’oss come l’infermiere e viceversa , il dirigente che non dirige e si lascia dirigere, il sindacato che non tutela l’infermiere demansionato, il collegio-ordine che non tutela i cittadini, il governatore che non governa, ma amministra.
 
Voi, altri da me, capite la differenza che intercorre tra un professionista ed un operatore formato per aiutare il sanitario, datemi in organico operatori sociosanitari in base alla complessità e poi decido io infermiere consapevole chi fa che cosa in ambito assistenziale. Datemi un codice deontologico che mi identifichi come professionista, datemi un dirigente che ricapitalizzi il lavoro e mi rispetti come professionista e saprò distinguermi.
 
Questo , secondo me è l’atteggiamento giusto: stare dalla parte di chi soffre, non considerarlo un corpo da lavare, e sapere chi vogliamo essere e pretenderlo.
 
Leggere di infermieri che chiedono, in organi di stampa o in social o fra pari , “chi lava il malato?” “chi lo fa il giro letti?” non è da professionisti.
 
Marcella Gostinelli
Infermiera 


17 novembre 2017
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