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Biotestamento. Quando il niente è meglio di una brutta legge

di Fabio Cembrani

12 MAR - Gentile Direttore,
la settimana prossima è stata calendarizzata la discussione del ddl su ‘Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate nei trattamenti sanitari’  nell’ultima versione approvata dalla Commissione il 2 marzo 2017 che ha profondamente novellato quella precedente recependo le molte proposte emendative dell’On. Binetti,
 
Le scrivo essendo spronato a farlo dalle numerose richieste che mi stanno arrivando di sottoscrivere petizioni popolari per l’approvazione di una norma che aspettiamo da decenni la quale dovrebbe disciplinare il diritto di ogni persona umana di poter esprimere la sua volontà riguardo ad opzioni di cura possibili (direttive anticipate di trattamento) o molto probabili (advance care planning).
 
Inviti che ho gentilmente declinato perché il d.d.l,, anche nella sua nuova versione, se approvato, sarà fonte di molte criticità oltre che di irragionevoli stigmi  e perché esso andrà a burocratizzare la relazione di cura la cui umanizzazione, sbandierata in tutti i talk show televisivi dagli improvvisati interpreti, richiedeva ben altro.
 
Restando convinto che il niente è meglio di una brutta legge anche perché non è assolutamente vero che gli attuali formanti giuridici non consentono alla persona di esprimere in anticipo la sua volontà riguardo a future opzioni di cura.
 
L’art. 1 della nuova versione del ddl valorizza il principio personalistico della nostra Costituzione (art. 32 Cost.) ripreso non solo dalla Carta dei diritti fondamentale dell’Unione europea come afferma l’art. 1, comma 1 ma anche dalla Convenzione di Oviedo (artt. 5 e successivi) e da tutti i Codici deontologici delle professioni sanitarie che pur dovevano essere indicanti.
 
L’esercizio di questa libertà pretende, naturalmente, il diritto all’informazione  e questo è un diritto ampio, che coinvolge anche i minori e le persone con disabilità intellettiva o cognitiva fermo restando il diritto della persona di delegare a terzi l’informazione confermato dal Codice di deontologia medica e dalla Convenzione di Oviedo (art. 10).
 
E la cui esigibilità richiede, evidentemente, tempi e luoghi dedicati non sempre riconosciuti dai sistemi performanti della sanità pubblica italiana dovendo essere sicuramente condivisa l’idea che la comunicazione è un tempo e, molto spesso, anche un luogo straordinario di cura (art. 1, comma 9) in cui si devono pur incontrare le autonomie, le responsabilità e le umanità del care.
 
Che non richiedono di essere radicalizzate prevedendo che la volontà della persona debba essere sempre raccolta (e depositata) in forma scritta perché questo modo di procedere,  associato alla previsione che il consenso informato (locuzione di una ambiguità evidente perché continuo a non capire come il consenso possa essere non informato) esonera il medico da qualsiasi ipotesi di responsabilità civile e penale (art. 1, comma 7), burocratizzerà e disumanizzerà pericolosamente la relazione di cura, tradendo le sue stesse finalità: che sono quelle di costruire un’alleanza prioritariamente umana la cui base portante è il riconoscimento reciproco, il paritario rispetto e la condivisione del certo e dell’incerto che non può mai sconfinare nella (pre)costituzione di cause di giustificazione per non avere guai di natura giudiziaria.
 
Quasi che il consenso assumesse la forma di un’altra scriminante dei comportamenti professionali che la legge Gelli-Bianco ha già pericolosamente circoscritto a quelli previsti delle guidelines e, in loro assenza, delle bestpractices clinico-assistenziali.
 
Si badi bene: il consenso non è mai la raccolta di una firma olografa su un modulo prestampato in cui sono di regola enfatizzati i rischi ma la conclusione (spesso non definitiva) di un processo dinamico che, attraverso la comunicazione, pretende di costruire un’alleanza fiduciaria che si dinamizza non con l’enunciazione in chiave difensiva dei rischi ma attraverso l’incontro di autentiche umanità che si riconoscono e si alimentano reciprocamente attraverso la lealtà ed il pieno rispetto delle singole autonomie e responsabilità.
 
Che non si riconoscono in un modulo, in una firma o addirittura in una videoregistrazione (art. 1, comma 4) analogamente a quanto avviene in Svizzera nel suicidio assistito ma che si storicizzano nel processo comunicativo e nella sua graduale costruzione.
Se è pienamente da condividere l’idea che nutrizione ed alimentazione artificiali sono misure terapeutiche e non misure di sostegno di base, grande imbarazzo suscita la previsione confermata anche nella nuova versione del ddl che la legittimità del consenso deve essere subordinata alla maggiore età ed alla capacità di intendere e di volere (o di agire) della persona (art. 1, comma 5).
 
Non solo perché, a livello internazionale, il minore ha un suo pieno riconoscimento giuridico (così la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo) ma soprattutto perché la capacità di intendere e di volere è una categoria giuridica che discrimina le molte persone affette da una patologia psicogeriatrica degradandole ad un qualcosa privato di qualsivoglia libertà all’esercizio attivo dei propri diritti.
 
Perché anche questi malati sono persone in senso pieno e perché, in non rari casi, le persone giuridicamente incapaci sono comunque in grado di assumere decisioni che devono essere rispettate a patto di non voler violentare la loro dignità e loro identità biografica.
 
L’art. 2 del ddl affronta la situazione in cui le persone siano minori o incapaci ed il ruolo del tutore, del curatore e dell’amministratore di sostegno che deve essere meglio e più opportunamente esplicitato; dovendo queste figure di rappresentanza giuridica attualizzare il best interest della persona, non potendo esse opporsi a terapie realizzate nell’interesse di salute della persona e diventare un ostacolo al care.
 
Interessi che devono essere onorati dal medico in tutte le situazioni di fragilità con la conseguenza che la previsione di coinvolgere, in caso di contrasto, il giudice tutelare non è né convincente né ragionevole. Non solo per i tempi della giurisdizione che, purtroppo, non sono sempre compatibili con gli interessi di salute della persona ma anche perché questa scelta mette forzatamente in subordine il ruolo di garanzia che ogni medico assume in tutte le relazioni di cura. 
 
Subordinare l’autonomia professionale del medico al giudizio della giurisdizione ordinaria disancorandola dagli interessi della persona è, quindi, un pericolosissimo attentato alla autonomia del sapere scientifico riconosciuta dalla nostra Carta costituzionale fermo restando che il richiamo operato dall’art. 1 comma 7 del ddl alle sole “buone pratiche clinico-assistenziali” non coincide con le previsioni contenute nella nuova legge sulla responsabilità professionale.
Gli artt. 4 e 5 del ddl trattano, infine, separatamente, del diritto della persona a depositare la sua volontà anticipata riguardo a future opzioni di cura e della pianificazione anticipata delle cure.
 
Condividendo la distinzione tra la volontà formalizzata anticipatamente da una persona sana e quella, invece, di chi la esprime in quanto persona ammalata riguardo ad opzioni di cura ragionevolmente prevedibili, sono forti le preoccupazioni rispetto ad alcune locuzioni utilizzate nel ddl e ad altre questioni di sostanza.
 
Fermo restando che l’art. 4 dovrebbe parlare di ‘direttive anticipate di trattamento’ e non già di ‘disposizioni anticipate di trattamento’, che la locuzione ‘consenso informato’ è ambigua e che la persona umana non può essere lessicalmente degradata ad ‘individuo’ o a ’paziente, preoccupano ancora le modalità della loro raccolta (“Le  DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata”).
 
Pur a fronte della semplificazione operata rispetto alla versione precedente, preoccupa non tanto la previsione della redazione scritta, sottoscritta e datata olograficamente dalla persona che deve essere salvaguardata ma la mancata previsione che la loro redazione sia legittimata attraverso un doppio canale, però con un grande assente: il medico di fiducia della persona.  
 
Non già per medicalizzare una scelta che è sostanzialmente morale ma per dare ad essa contenuti chiari e non equivoci ai fini della loro piena esigibilità. Anche perché la sussidiarietà non solo tecnica ma soprattutto umana in questo particolare momento della vita di ogni persona deve risolvere i dubbi e detendere le sue ansie e paure; consolidando il primo perno di quell’alleanza che non può partire nella solitudine esistenziale e che dovrà essere poi onorata da chi sarà eventualmente chiamato al rispetto di una volontà previa senza che si pongano dubbi interpretativi sui contenuti della direttiva.
 
È da condividere l’idea del fiduciario debba essere sempre individuato dalla persona, preferibilmente tra i componenti della rete parentale o amicale  ma preoccupa l’incertezza del suo ruolo che andrebbe esplicitato come ha fatto il Code francese anche per non creare confusioni con le altre figure di rappresentanza giuridica che pur potrebbero sorgere nel caso della loro coesistenza. 
 
Non essendo condivisibile l’idea che, se non nominato, sia il Giudice tutelare a nominarlo con la possibilità di investire dei relativi compiti anche l’amministratore di sostegno per non aggravare il carico di lavoro della giurisdizione e non confondere le scelte della persona con quelle della giurisdizione stessa. A sottolineare l’importanza e la centralità del ruolo di garanzia del fiduciario, ribadendo che la capacità di intendere e di volere della persona richiesta per la redazione della volontà anticipata è un errore concettuale che sarà fonte di disuguaglianze e di stigmi.
 
Perché se è pur vero che, di regola, è la persona sana che dichiara la sua volontà anticipata rispetto ad opzioni di cura ipotetiche ma pur sempre possibili è pacifico che questa idea concettuale pone evidentissime criticità quando la persona, malata, è chiamata a pianificare quelle cure non già ipotetiche ma ragionevoli per la stessa evoluzione naturale della malattia.
 
Essendo scontato che la capacità di intendere e di volere e la moral agency non sono un’endiadi restando su piani diversi nonostante i punti di contatto e che molte persone, ancorché riconosciute giuridicamente incapaci o non più in grado di provvedere ai loro interessi, sono ancora in grado di integrare le diverse esperienze nella loro identità biografica, tenuto conto dei loro valori di riferimento, delle loro sensibilità e della loro stessa idea di dignità.
 
Che non può essere amputata e selezionata perché ciò equivarrebbe ad amputare a dignità dall’idea di persona di cui si fa garante la nostra Carta costituzionale e le molte altre Carte sovranazionali ed internazionali e che essa è un attributo di ogni persona.
 
Speriamo davvero che il dibattito politico sappia correggere queste storture e che la saggezza pratica sappia mettere per una volta da parte i molti pregiudizi che si colgono nel confuso dibattito in corso.
 
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento

12 marzo 2017
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