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Il riformista che non c'è…a cominciare dall'Università

di Eleonora Franzini Tibaldeo

02 NOV - Gentile direttore,
sono una studentessa di Alba iscritta al sesto anno di medicina, a Torino. Sono rimasta colpita da quanto ha affermato il Prof. Cavicchi nella sua intervista pubblicata il 27 ottobre. Tante sono le domande e i ragionamenti che mi sono giunti in seguito. Intanto trovo interessante  la definizione data dal Prof. Cavicchi sul consumo e l’uso della medicina come forma di tutela e quindi sulla sua necessaria riforma. Egli sottolinea come riformare la tutela (quindi l’uso e il consumo di medicina) equivalga alla fine ad un intervento sui contenuti professionali  per  intervenire sulla domanda (le necessità del malato) e di conseguenza sull’offerta: il personale medico, quello sanitario e le diverse strutture a salire.
 
Trovo particolarmente suggestiva la proposta  in fin dei conti  di una riforma culturale dei modelli  per agire sul rinnovamento del sistema  e degli ordinamenti. Ma se la tutela  è l’uso delle conoscenze e delle pratiche  mediche e se le conoscenze e le pratiche  si imparano all’università, quale università dovrebbe corrispondere ad una eventuale riforma della tutela? Vede direttore noi studenti  specialmente quando cominciamo a fare le prime esperienze sul campo ci rendiamo conto subito che siamo teoricamente formati ad un genere di tutela che nella stragrande maggioranza dei casi è smentita dalla realtà. Cioè nasciamo fin dall’inizio come inadeguati.
 
Il Prof. Cavicchi inoltre parla di agente, cioè colui che è in grado, considerando i contesti
culturali, sociali, economici, scientifici e deontologici, di compiere l’atto, in contrapposizione al compitante, cioè colui che esegue compiti, segue pedestramente le
linee guida e si attiene a rigidi protocolli.  Cosa dovremo imparare noi futuri medici? Ad essere compitanti o agenti ? Le assicuro direttore che noi studenti di medicina  non siamo formati per essere agenti e meno che mai per avere delle relazioni con il malato, e ancor meno per  governare quella complessità che il prof Cavicchi  cita spesso quella  fatta da biologia, etica, sociologia, economia,contesti,  ecc.  Penso quindi che per riformare il vecchio modello di tutela  si debba trovare il modo di riformare  la formazione stessa che ancora oggi pecca di nozionismo (come ho detto prima) e di una profonda e insanabile schizofrenia (per utilizzare un termine caro al professore) tra ciò che è attuale, moderno e scientifico e la metodologia clinica, ahimè ancora antica.
 
Il dare a ognuno di noi gli strumenti per rendere personale l’approccio (quindi umanizzare), senza ovviamente dimenticare la clinica, le prove basate sull’efficacia, le
scoperte scientifiche, ecc, non è come fare un bel balzo in avanti? Si tratta quindi di formarci  alla autonomia e alla responsabilità e al valore degli esiti altrimenti succederà che non  appena  fuori dall’università dovremmo autoriformarci in senso antiuniversitario. Spesso a noi giovani medici vengono frustrate le ambizioni, le intuizioni o la freschezza di
pensiero e il confronto tra l’aggiornamento scientifico e la realtà procedurale clinica e ciò
crea tensioni e demotivazione. Durante il mio percorso formativo ho notato brillanti menti autonome e responsabili diventare spianate e conformi per mancanza, a mio avviso, di capacità rafforzative del sistema di formazione in quanto antiquato e uniformizzante. Chi poteva apportare il nuovo attraverso un ragionamento logico e cognitivo si ritrovava a doversi adeguare agli standard operandi, e quel singolo bagliore di umanità, sensibilità e attenzione perdersi nell’alexitimia o nel tecnicismo pratico.
 
Spesso questa schizofrenia tra formazione  e realtà  ha creato troppe frustrazioni anche tra gli stessi pazienti i quali, non sentendosi più ascoltati e capiti, rispondono con maggiore aggressività e insoddisfazione. Il circolo vizioso che purtroppo si è venuto a creare è il maggiore allontanamento delle parti e una crisi di identità della professione sanitaria al punto da rifugiarsi nella medicina difensiva. Gli eccessi di procedure, di terapie e di esami strumentali, quello che qualcuno oggi chiama “sovradiagnosi” hanno creato una spesa elevata e una crescente sfiducia nella medicina stessa, implicando quindi una crescente svalutazione professionale del medico.
 
Rimanendo fiduciosa nel futuro, non posso che ringraziare il prof Cavicchi  per aver indicato con rigore e coraggio    una svolta possibile ma ricordando a tutti  che la tutela nelle sue diverse forme nasce nelle università  che per prime tradiscono profonde inadeguatezze  nei confronti del nuovo che avanza e ci sopravanza.
 
Eleonora Franzini Tibaldeo

02 novembre 2013
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