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Cassazione. Il Servizio sanitario può erogare prestazioni solo se ci sono evidenze scientifiche


La Cassazione con l’ordinanza 10719/2019 ha cassato una sentenza della Corte d'Appello con cui si autorizzava il rimborso a un cittadino che chiedeva l'erogazione gratuita di una terapia conosciuta come metodo Dikul che prevede una rieducazione motoria intensa, continuativa e personalizzata. L'ORDINANZA.

18 APR - Il Servizio sanitario nazionale non paga per cure la cui efficacia non è dimostrabile in base a evidenze scientifiche.

Lo ha ribadito ancora una volta la Cassazione nell’ordinanza 10719/2019 scrivendo così la parola fine nel contenzioso tra una Asl di Firenze e un cittadino che chiedeva l'erogazione gratuita di una terapia conosciuta come metodo Dikul che prevede una rieducazione motoria intensa, continuativa e personalizzata.

Il fatto
La Corte d’Appello di Firenze, sulla base di una consulenza tecnica che aveva riconosciuto al trattamento “anche se in mancanza di una validazione scientifica, indubbi e obiettivi effetti positivi sulle condizioni di salute” dell’incidentato aveva autorizzato l’erogazione della prestazione e, quindi, secondo i giudici c’erano i “requisiti, di appropriatezza ed efficacia, richiesti dall'art. 1, comma 7, del decreto legislativo n. 502 del 1992, nel testo modificato dall'art.1 del Dlgs n.229 del 1999, per la somministrazione a carico del Servizio sanitario nazionale”.

Ma sull’ulteriore ricorso dell’Asl, la Cassazione ha cassato la sentenza perché, ha sottolineato nella sua ordinanza, l'aver riscontrato dei benefici sul paziente non è un elemento sufficiente per poter ottenere le cure gratuitamente.

La sentenza
Secondo la Cassazione, per l'erogazione gratuita di prestazioni sanitarie da parte del Ssn si richiede il rispetto dei seguenti criteri:
- che le prestazioni presentino, per le specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, validate da parte della comunità scientifica;

- l'appropriatezza, che impone che vi sia corrispondenza tra la patologia e il trattamento secondo un criterio di stretta necessità, tale da conseguire il migliore risultato terapeutico con la minore incidenza sulla qualità della vita del paziente;

- I' economicità nell'impiego delle risorse, che impone infine di valutare la presenza di altre forme di assistenza meno costose e volte a soddisfare le medesime esigenze, di efficacia comparabile, considerando quindi la possibilità di adeguati e tempestivi interventi terapeutici concorrenti o alternativi erogabili dalle strutture pubbliche o convenzionate con il servizio sanitario nazionale.

“Si tratta – specifica la Cassazione - di requisiti concorrenti che coniugano, ragionevolmente, le diverse esigenze, concernenti la sfera della collettività e la tutela individuale, in più occasioni richiamate dal Giudice delle leggi in riferimento al diritto alla salute: i condizionamenti derivanti dalle risorse finanziarie di cui lo Stato dispone per organizzare il Servizio sanitario, da una parte, e il nucleo irriducibile del diritto alla salute come ambito inviolabile della dignità umana, dall'altra”.

E ha aggiunto che “la pretesa di scelta della modalità tecnica della cura presso un centro non accreditato con il Ssn non può derivare solo dal maggiore gradimento soggettivo, occorrendo l'inettitudine delle metodiche pubbliche anche sotto il profilo psicologico-motivazionale”.

La Cassazione spiega che dalle argomentazioni del giudice di merito che il CTU, malgrado il quesito che gli era stato posto, non ha accertato che la terapia RIC (o Dikul, appunto) “abbia apportato per il paziente risultati apprezzabilmente migliori di quelli che si sarebbero potuti ottenere praticando le prestazioni sanitarie già ricomprese nei LEA e dispensate dal SSN, avendo riferito che rispetto a queste il metodo RIC non presenta specifiche diversità al di là dell'intensità del trattamento”.

Mancano quindi nella sentenza della Corte d’Appello, secondo la Cassazione, e nelle risultanze di causa le evidenze scientifiche della maggiore validità della RIC, “atteso che il ricorrente, come si evince dagli atti, ha eseguito la terapia Asl solo per un brevissimo tempo (contro gli anni di RIC) e a ridosso dell'incidente”.

“L'adeguata comparazione – continua l’ordinanza  - avrebbe infatti richiesto una valutazione non solo degli obiettivi, ma dei risultati ottenibili con i trattamenti somministrati per una durata omogenea, desumibili dal caso specifico, od anche da altri casi o da un'asseverazione della scienza medica, e del resto la Corte di merito ha rimarcato proprio la circostanza che rispetto alle terapie tradizionali, erogate dal Ssn, non vi sono particolari specificità diverse dalla ‘intensità’ del trattamento”.

In conclusione, secondo la Cassazione la sentenza impugnata, che ha riconosciuto l'erogabilità, da parte del Ssn, sulla base dei soli riscontri di efficacia effettivamente ottenuti sulle condizioni personali di vita del paziente e “sull'innescarsi, in conseguenza della terapia RIC, di un meccanismo proficuo di causa-effetto alimentato dai risultati raggiunti e da quelli potenzialmente ancora raggiungibili, non si è conformata ai predetti principi, deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto in assenza di deduzione e prova dei requisiti illustrati nei paragrafi che precedono, la  causa può essere decisa nel merito, con il rigetto dell'originaria domanda, in coerenza con la soluzione adottata da questa Corte nei più recenti arresti (ovvero altri provvedimenti analoghi ndr.) resi in fattispecie analoghe”.

18 aprile 2019
© Riproduzione riservata

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